Costantinopoli immaginario che rivivo nella Istanbul di un aeroporto che ha profumi di dolci col miele

ROMA - Dal Mediterraneo ad Ankara e Istanbul. La mia Turchia. Ataturk. Il cielo non ha stelle. Le nuvole sono nell’ottobre mite che annuncia l’inverno. Il sole ha raggi mediterranei. Il mausoleo di Ataturk racconta storie. Storie di frontiere e di bandiere. Il vento raccoglie parole e l’odore di echi d’Oriente si sente nei passi  dei viandanti che guardano senza abbandonarsi alle osservazioni. Sono in Turchia. Ad Ankara.

L’intreccio degli sguardi si fa intenso.

L’immagine delle moschee si dilata e ci accompagna durante tutto il tragitto che dall’aeroporto ci conduce sino all’albergo. I minareti sembrano toccare le nuvole ed hanno colori chiaroazzurri. Si perdono nel fumo del vento. Il paesaggio ci recita subito la sua storia. Il mare è distante e le colline e la terra fanno da scenario. Gli occhi delle donne hanno arcobaleni. Sembrano assenti ma non si smarriscono. L’albergo è turco. Si nota a primo impatto.

Ho viaggiato lunghi viaggi ma ogni qual volta la Turchia mi chiama sento quell’odore e quei sapori di un Oriente che è dentro di me. L’antica Costantinopoli conosciuta tra le pagine di Edmondo D’Amicis e tra le parole incantate di Corrado Alvaro mi porta una luce che è fatta di ombre e di nuvole che ondeggiano tra i cieli del Mediterraneo. E penso al mio Mediterraneo. A quello che ho vissuto nel tempo della mia infanzia tra le scogliere di Sibari e i mari del Sud.

Costantinopoli resta un immaginario che rivivo nella Istanbul di un aeroporto che ha profumi di dolci con il miele. La mia Calabria ha molto della Turchia. Lo diceva bene Corrado Alvaro. Istanbul è un mercato nella fiera dei colori. È una fiera tra i silenzi notturni e la festa del giorno. Tutto mi riporta a un gioco che resta dentro di me interminabile. Un gioco di sguardi come le donne zingare che danzano con le movenze delle stelle in una notte di luna che spezza il mare dal deserto. Questi miei viaggi non sono più fatica. Forse abitudine.

I foulard di seta e le sciarpe ricamate mi coprono il capo. Sono il misterioso tra le parole che cuciono nel vento i segreti di una vita. L’aereo atterra con lentezza su Istanbul. Il porto è una marina.

Osservo dal finestrino. La musica è sempre una dimensione che tocca le corde del cuore. Poi da Istanbul con i suoi minareti che sembrano toccare l’anima del vento giungo ad Ankara. Sembrano due città distanti nella storia e nel tempo ma sono soltanto ad un’ora di aereo. Ankara ha le colline e il montuoso della Turchia è segmentato.

I destini decifrano l’immaginario che ho lasciato nell’Occidente – Oriente di Istanbul. Il fascino dei colori anche qui ha un suo tocco di inimitabile  festa. La piazza è un grande mercato e lo sfolgorio delle pietre luccicanti abbaglia. Le gonne delle donne sono banderuole al vento. Gli occhi delle ragazze hanno uno splendore ospitale. Mi trovo ancora una volta qui. Anzi ci troviamo qui per discutere di letteratura italiana e dialogare con gli studenti universitari e docenti di una Italia che recita i suoi linguaggi, le sue eredità, le sue poesie.

Raccontiamo una storia di piazza  attraversando poeti e avventure nei personaggi che si incontrano tra le pagine e la vita. Tutto diventa decisamente ordinato nella logica del nostro parlare ma veniamo osservati, scrutati e ogni parola è presa con il bilanciano. Chiedono. Domandano. Interrogano. La letteratura non è più storia. Ma si fa destino perché si misura con le cifre delle metafore. Tutto diventa una metafora che continua nei giorni che misurano il tempo con la clessidra della memoria.

C’è un narrato che si sgretola nel raccordare la realtà con la geografia che non conosce alcuna storia perché resta dentro ognuno di noi. Ankara non smette di tentare di raccordarsi con l’Occidente ma non rinuncia alla sua eredità e alle sue tradizioni. Non solo dal punto di vista religioso. Nella durezza dei volti c’è un sorriso nascosto. Bisogna sempre fare i conti con il passato ma il passato si dimentica se il presente è camminamento nel quotidiano. Non solo per gli Stati ma anche per gli uomini.

Il passato della Turchia è nella memoria. La bandiera con la mezzaluna continua a restare nel presente ma tutto cambia anche se si vorrebbe restare legati ad una eredità. Non sempre è possibile. Ed è sempre necessario essere diversi nel tempo che  vive nella pietra angolare della nostra autentica biografia. Non siamo sempre gli stessi. La nostra mutevolezza è nel misterioso degli incontri.

La prima volta che giunsi in Turchia il timore era penetrante. Non conoscevo. Non avevo visto. Non avevo avvertito il fascino. Possiamo tutti essere mercanti di pietre preziose. Ma anche le pietre preziose hanno un loro diverso valore e poi bisogna capire il senso delle pietre. Parlare di letteratura italiana in Turchia non è la stessa cosa di come parlarne in Francia, in Germania, in Austria. Forse la Turchia ci appartiene di più. Siamo sempre un Mediterraneo che penetra l’Adriatico e un Adriatico che si cerca nel Mediterraneo.

Mi separo da Ankara con nostalgia. Il viaggio di ritorno è sempre una nuova partenza. Non è realmente un ritorno. È un nuovo viaggio che comincia. Lascio (lasciamo) la città nell’ora presta. Il chiarore si dipana tra le parole. Istanbul è sempre in festa. Ancora l’odore del miele e dello zucchero è tra le pieghe dell’aeroporto. Anche con la pioggia. Il vento è alle  spalle. Roma è sempre una attesa. Anche quando la notte occupa i quartieri. Ci accoglierà con le parole del sempre. Ma Ankara e Istanbul sono anche il nostro viaggio.

di Pierfranco Bruni

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