Linguaggio e sacro in Leszek Kolakowski diventano l'antropologia del linguaggio dell'essere

ROMA - Leszek Kołakowski a 10 anni dalla morte. Il filosofo antropologo che dialogò con Giovanni Paolo II e l'attuale papa Benedetto XVI. La posizione di Kołakowski, a 10 anni dalla morte (2009), era nato nel 1927, sulla questione metafisica, impone una profonda riflessione circa la funzione che la filosofia potrebbe avere in termini antropologici.

Due dimensioni solitamente distanti. Tuttavia Kołakowski, attraversando il modello teologico, da lui non accolto come modello autorevole, arriva a penetrare una visione che pone come questione centrale la crisi dell’Illuminismo, intesa come “crisi della ragione”. Il concetto di ragione è il nodo di Gordio intorno al quale si consuma tutta una filosofia anche di impronta cattolica. La conversione al cattolicesimo conduce Kołakowski, di formazione marxista, ad affrontare il tema della ragione come epicentro centrale di un superamento della metafisica. Metafisica che, sia in termini filosofici che antropologici, non si serve mai della ragione, anzi, le si contrappone e a volte l’attraversa ponendo la sua pioggia di pensieri intorno alla conoscenza e alla comprensione dell’uomo.

La centralità dell’uomo-Dio, nella metafisica diventa la centralità dell’uomo-pensiero che ha la sua ragione d’essere e non la sua visione di ragione illuminista. Non può esistere una “metafisica della ragione” sul piano interamente indirizzato verso una antropologia dell’umanesimo con la quale crea, invece, un costante dialogo. Non può sussistere un dialogo tra metafisica e ragione, in quanto punti contrapposti. Da Spinoza e Leibniz il “ragionamento” verrà poi mutuato da filosofi quali Heidegger e Bergson .

All’interno di questo intreccio insisterà sempre la figura di Nietzsche . Il dilemma ha una sua prospettiva onirica, se lo guardiamo dal punto di vista mistico. Quello della centralità di Cristo, che non ha nulla a che vedere con la ragione e l’Illuminismo. In questo consiste il grande errore del mondo cattolico. Cristo è metafisica. Cristo dialoga in termini metafisici. Cristo  è solo. Resta solo davanti a una visione che non può giustificare nulla, perché la filosofia non giustifica. Se la teologia ha un metodo, che è quello di giungere ad una verità creduta tale, la filosofia non può avere un metodo che conduca alla verità, ma semmai al dubbio.

È come se la metafisica avesse come interlocutrice la poesia. Siamo nel campo del mistero, del misticismo, della missionarietà che diventa confessione. La diversità di fondo tra Kołakowski e la Zambrano sta proprio qui. Kołakowski si riflette in questo specchio, superando la teologia. Egli sa bene che la teologia è fatta di ragione, la filosofia di dubbio e la poesia di mistero. La Zambrano si poggia su due epicentri fondamentali: quello metafisico e quello poetico. Kołakowski, al contrario, parte da un presupposto materialista e, attraversando la cultura marxista, comprende che lo stalinismo è il frutto del marxismo. Egli tocca con lo sguardo e con la parola il concetto di ragione cattolica, non cristiana in senso lato. Maria Zambrano, invece, cerca di porre come pensiero centrale l’essere cristiano, sia nella cultura occidentale che orientale. Se Cristo è solo, gli uomini in Cristo resteranno sempre soli e apprezzano la solitudine come pregio e mai come difetto o come vizio.

Elogio della leggerezza o elogio della contraddizione. Elementi sui quali Kołakowski cercherà di porre un’attenzione che diventerà attrazione. Quegli stessi elementi che nella Zambrano si vivono come “elogio del dubbio e della fortezza”. Maria Zambrano nasce nella funzione prioritaria di Santa Teresa d’Avila, all’interno di uno studio empirico sulla funzione del messaggio paolino mutuato da Seneca. In lei il passaggio diventa Seneca che dialoga con San Paolo.

Kołakowski, pur cercando di approdare a questa dimensione che va oltre il metafisico, continuerà sempre a fare i conti con il positivismo e con il senso della ragione. Nel libro “Orrore metafisico” si pone davanti a questo specchio ponendosi questioni sull’assenza di Dio. Una civiltà senza Dio, è una civiltà negata. Si noti come il filo che lega Kołakowski alla metafisica e alla ragione sia molto sottile.

Il discorso si potrebbe porre sul piano epistemologico, ma l’epistemologia ha la sua concettualità nella ragione e nella spiegazione. Una volta giunto a una tale concezione, Kołakowski si rifiuta di porre come metodo la struttura entrando in un altro campo significativo: quello del linguaggio, che può essere tutto e nulla. Il linguaggio è il vocabolario di una presenza del mondo nel tempo o del tempo nel mondo. Una presenza data anche dalla lingua. Ecco perché le leggi nella Bibbia hanno la valenza etnica dei popoli e delle civiltà. Uno scavo interessantissimo che propone una lettura biblica attraverso le etnie, le civiltà e le identità di un popolo.

Da questo punto di vista Kołakowski viaggia in una direzione diversa rispetto alla Zambrano, la quale pone il suo pensiero sulla sofferenza dell’esilio. Un esilio che è solitudine vissuta come manifestazione dell’essere. Kołakowski non si accontenta di questo. Per questo motivo sradica, attraverso il bisturi della logica, una dimensione prettamente esistenziale arrivando a scavare nelle etnie bibliche fino a giungere dentro il cuore del viaggio, dove il marxismo non è mai penetrato.

Tuttavia, rimarrà sempre cattolico, non superando il limite della cattolicità per andare verso la cristianità, ovvero verso la solitudine di Cristo.

Parlare di Cristo non significa parlare dei seguaci di Cristo. Significa parlare di Cristo. Della sua solitudine, che non è sofferenza, ma croce. Cristo in croce non soffre. È Maria che soffre vedendo il proprio figlio sanguinante, piegato, inchiodato. Lui si affida alla volontà di Dio. La grande volontà di Dio. È qui che entra in gioco il discorso del superamento della perdizione verso la provvidenza e non verso la provvisorietà. Cristo ci fa capire l’importanza della provvidenza insegnandoci che nel momento in cui si pensa che tutto sia finito, c’è sempre una volontà di Dio che non può mai essere negativa. Dio è il Bene. È il supremo Bene. Una concezione che vive nella filosofia tibetana e buddista ma che non troviamo nel mondo cattolico, il mondo del peccato e della redenzione. Una religione, quella cattolica, prettamente relativista e negativista. Il suo aggancio al mondo indù e tibetano diventa un aggancio verso il superamento del relativismo cattolico. Tutto è relativo perché alla fine c’è la parola di Dio.

Filosoficamente non è così e non può essere così neppure sul piano mistico. Una imposizione che non è più accettabile. Noi sappiamo che c’è la volontà di Dio e che Dio non giudica. È lì per fare il bene.

Per deviarci dal male. Di conseguenza non è che se io pecco, poi vengo perdonato dalla Chiesa cattolica per volontà di Dio. Questa è una usurpazione del pensiero che diventa un tentativo di superamento del mistico nei confronti del relativo. L’orrore non è metafisico. L’orrore è teologico. E in questo “orrore “teologico, Cristo è sempre solo perché osserva, guarda con gli occhi di chi sa che bisogna sempre pensare all’altro da sé. Non al demone. Non a Satana (un’altra grande invenzione teologica!). L’uomo è tale in quanto ha il suo pensiero. Questo potrebbe farci entrare nella intermittenza della ragione, ma non è così. Perché l’uomo ha il pensiero, ma del pensiero ne è possessore Dio. Il pensiero dell’uomo lo comanda Dio. Si supera il libero arbitrio. Una becera scusante che non può appartenere alla filosofia, al cammino mistico di Cristo. Il dubbio è altro rispetto al libero arbitrio. Io ti lascio sbagliare perché poi ti devo imporre il senso di colpa del perdono e devo vedere se è possibile perdonarti o meno. La grande metafora, alla fine si svolge qui.

Io devo tenerti in possesso - dice la Chiesa - ti lascio fare. Sbaglia pure. Devi sbagliare, perché io devo avere la forza per importi una penitenza. Io ti devo imporre una penitenza. Ti devo “bastonare”, metaforicamente.

San Francesco di Paola, eretico e grandioso,” bastonava” prima che il peccato si potesse compiere. È questa la funzione cristiana. Una funzione priva di teologia. Io non posso permettermi di sbagliare e dire “ho sbagliato” come uomo e come Chiesa ti perdono. Tutto ciò è nella cultura popolare, non nella metafisica, non nel pensiero forte della filosofia. È nel relativismo. Nella leggerezza del relativismo che ha trovato il suo spazio nella potenza del marxismo. In quella potenza che ha unito sia il marxista, che il cattolico, credendo che il cattolico si trovi in fede, invece, è altro rispetto alla fede. Il “ragionamento” tocca la misura in cui tutto può essere detto e nulla può essere negato. La negazione cos’è in fondo? Il “non credere” che il mistico vive la bellezza della solitudine. La bellezza dell’ascolto, della pazienza. La bellezza del silenzio. Qui Kołakowski ritrova ciò che avrebbe desiderato trovare con il suo pensare alla solitudine di Dio.

Kołakowski gioca fortemente con l’immaginario e anche con l’immaginario metafisico perché di questo si serve per definire quelle visioni che hanno come punto nevralgico da una parte il diverbio su metafisica o non metafisica di una questione, e anche a volte filosofica e dall’altro aspetto un discorso prettamente epistemologico, e quando non entra in questi due aspetti si serve fortemente di un elemento ontologico. Perché si serve di un aspetto ontologico? Perché credo che viva di paradossi e di quei paradossi in cui la filosofia diventa anche una dottrina in cui “la predicazione” dello scetticismo è molto forte.

La lezione della saggezza indù e buddista in Kołakowski è molto presente, ed è presente nel momento in cui insiste il senso dell’assoluto, quel senso in cui il gioco linguistico diventa anche la possibilità di una percezione in cui l’essere assoluto ha come punto di contatto la necessità di capire l’esistenza.

Infatti egli è uno studioso di Damascio, uno straordinario filosofo del VI secolo neoplatonico, con il quale fa gran parte del suo cammino e quando parla del compromesso tra cristianesimo e neoplatonismo suggella proprio questa dimensione in cui l’universo fisico e cosciente va alla ricerca di una conciliazione con il metafisico. una grande dimensione che abbiamo trovato nell’”orrore metafisico” e in un altro libro dal titolo “se non esiste Dio” che diventa uno dei libri centrali della sua ricerca, uno di quei libri centrali in cui campeggia sia la figura di Heidegger che di Merleau-Ponty un altro grande filosofo in cui insistono elementi filosofici esistenziali di incrocio tra mito e filosofia. Un incrocio in cui poi trova come punto di contatto anche il principio posto da Avicenna nel senso della metafisica, e questo ricercare all’interno della cultura ellenica e pre-ellenica, una alternativa al senso dell’assoluto nella percezione della modernità, diventa un vero e proprio modello in cui la figura di Nietzsche diventa fondamentale soprattutto quando si discute di Cristo e soprattutto quando Kołakowski legge con molta attenzione la “gaia scienza” di Nietzsche, ma tutto questo ha una funzione non solo ermeneutica, ma fortemente antropologica, di quella antropologia che si basa sulla filosofia, ovvero su una antropologia che ha la necessità di riflettere su una filosofia in cui il linguaggio potrebbe dare spazi ad una “epistemologia del relativismo”.

Siamo in un campo prettamente metafisico e filosofico ma l’antropologia di Kołakowski assorbe queste visioni che sono pertinenti il richiamo alla unicità dell’uomo come all’unicità di Dio. ecco perché si confronta costantemente con Sant’Agostino e con Plotino, ma anche Budda. il dato concreto di Kołakowski è proprio quello che passa attraverso questa filosofia che è una filosofia in cui Dio diventa un Dio “disperato” e “disperante” e si pone una domanda forte che potrebbe essere una sottolineatura nella quale dice che nessuno è mai stato convertito alla fede dalle discussioni filosofiche, infatti egli dice che nessuno è mai stato convertito alla fede dalle discussioni filosofiche
Tutto questo rientra in una caratterizzazione in cui la centralità diventa proprio il misticismo che anche in antropologia è una chiave interpretativa importante. lui chiude il libro “se non esiste dio” con una osservazione tratta dal “Bhagavadgītā”, siamo in pieno clima buddista e dice: “Poiché al di là del tempo dimori in questi corpi sebbene questi corpi abbiano una fine nel tempo ma lo spirito rimane incommensurabile, immortale. Pertanto, grande guerriero, continua la tua battaglia. Al di là del potere della spada e del fuco, al di là del potere delle acque e dei venti, lo spirito è eterno, onnipresente, immutabile, immobile. Sempre uno”.

Questa osservazione che viene dal mondo buddista è posta come chiusa proprio al “se non esiste dio”, ma Dio esiste e in questa visione tra il sacro e la morte, nella visione che diventa incommensurabile di un Dio che è anche ragionatore, ci troviamo di fronte a quel Dio dei mistici, il cui misticismo diventa l’eros nella religione. Il legame tra i linguaggio e il sacro in Kołakowski diventa l’antropologia del linguaggio dell’essere.

In fondo tutto il suo Dio degli insuccessi non è altro che una teodicea, e allora non è solo il filosofo che si pone in questa discussione mistica, è anche l’antropologo che sa bene che ha bisogno di andare al di là e al di sopra di ogni ricerca antropologica per trovare la vera realtà eterna, ovvero la spiritualità, e dall’antropologia quella filosofia del tempo che è la filosofia dell’anima, perché è convinto con il viaggio tibetano che lo spirito, che vive nel corpo, non invecchia e non muore. infatti nessun mistico - egli dirà - ha tentato di dimostrare l’esistenza di Dio. L’antropologia che si pone davanti alla cristianità, che si pone di fronte al religioso e non al nulla, è una antropologia in cui la figura centrale di Sant’Agostino non è venuta mai meno e se da “orrore metafisico” a “se non esiste Dio” c’è un viaggio vero e proprio, questo viaggio diventa un viaggio non più oltre il metafisico, ma dentro la ricerca di una antropologia della metafisicità.

Il dato della sua antropologia si fonda sulla metafisicità perché porre al centro la spiritualità per l’uomo credente o non credente significa anche superare quella barriera che è fatta di un linguaggio, le cui radici poggiano non più sul razionale, ma su una forma di identità esistenziale.

È come se Kołakowski vivesse in un processo in cui la stratigrafia delle parole ha una sua dimensione intercalata tra l’Antico e il Nuovo Testamento e quella filosofia greca e latina che apprende il valore dell’autenticità della parola. Una autenticità che non nasce dal nulla, ma che ha la sua essenzialità nel valore di conversione. Ecco perché, in fondo, Sant’Agostino diventa quel filosofo pre-cristiano e post-cristiano, ed è come Kołakowski dicesse che dopo Sant’Agostino è difficile trovare una innovazione in questo viaggio ontologico. Bisogna rifarsi costantemente alla figura di Sant’Agostino.

In lui c’è l’uomo antropologico e l’attraversamento di una antropologia in una semantica dei linguaggi che è la rappresentazione reale del senso del tempo.

Forse proprio per questo motivo il tempo è la spazialità del pensiero. Dal segno relativista all’assoluto il passaggio diventa fondamentale, perché c’è questa curvatura verso il mondo cristiano che scopre grazie a Mircea Eliade soprattutto quando si discute di sacralità, del legame tra il sacro e il mito e della religiosità popolare intesa come antropologia dell’umanesimo.

Mircea Eliade è andato alla ricerca della primitività della religiosità dei popoli e l’ha inserita nella identità prioritaria dei popoli primitivi. Kołakowski si serve della filosofia. La strada che traccia e i tasselli che segna al suo mosaico sono stati dati da due grandi studiosi dell’antropologia. Eliade da una parte, con la sua sacralità primitiva, e Malinowski dall’altra. In mezzo è come se ci fosse Lévi-Strauss. Ecco come il modello culturale filosofico di Lévi-Strauss diventa la dimensione di una epistemologia antropologica. Può esistere una epistemologia e una antropologia, ovvero una epistemologia in sé e una epistemologia antropologica? Con Kołakowski sì perché  è lo studioso che parte dal concetto di “cosa” e di “cose” per approdare alla necessità di destino e alla necessità (o al bisogno) di interpellare il sacro. Sono riferimenti che centralizzano la rappresentatività del pensiero di Kołakowski.

di Pierfranco Bruni

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