Funzione docente dimensionata dalle dinamiche di reclutamento, centralizzate o privatistiche

ROMA - Il docente tra vocazione e professionalità. Nella scuola del riformismo a tratti convulsivo, la figura del docente resta un tabù rimosso dallo scacchiere dei decisori politici, quasi che la “comunità educante” (art. 24, CCNL 2016-2018) dovesse costruirsi su principi volontaristici.

A supportare tale tesi concorre una rapida comparazione con i Paesi europei, a partire dai sistemi di reclutamento e di formazione. È evidente l’impossibilità di rilevare meccanismi isomorfici, pur evidenziandosi la comune presenza di dispositivi di accesso e di stabilizzazione professionale.

L’acquisizione degli standard previsti, in linea generale, è conseguibile attraverso modelli formativi che possono essere simultanei, se il momento di formazione disciplinare-accademico è concomitante alla pratica; consecutivi, se il dominio teorico-pedagogico è propedeutico all’azione sul campo; ibridi se le predette componenti si integrano alternativamente e con “dosature” diverse.

Talvolta, sono proprio le dinamiche di reclutamento – centralizzate o privatistiche, su base concorsuale-selettiva o per intuitu pesonae (in tal caso, la discrezionalità è compensata dalla presenza di organi collegiali e da procedure comparative ad evidenza pubblica) - a dimensionare la funzione docente. Se, infatti, lo status giuridico di pubblico impiegato appare blindato da un sistema di tutele consolidato, la “liberalizzazione” della professione sembrerebbe da un lato precarizzarla, da un altro qualificarla entro circuiti meritocratici che incidono direttamente sull’aspetto retributivo.

La valutazione, pertanto, assume in controluce carattere propulsivo, estrinsecandosi in campi di osservazione non comprimibili nella mera oggettività. La recente normativa ha in tal senso scardinato il dogma del “posto fisso”, iniettando nel sistema italiano l’antidoto “competenziale”. Sono stati pertanto assunti i seguenti parametri: la “qualità dell'insegnamento e [il] contributo   al miglioramento dell'istituzione scolastica, nonché successo formativo e scolastico degli studenti; [i] risultati ottenuti dal docente […]  in relazione al potenziamento delle   competenze   degli   alunni   e dell'innovazione   didattica   e metodologica, nonché della collaborazione alla ricerca didattica, alla documentazione e alla diffusione di buone pratiche didattiche; [le] responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico e nella formazione del personale”. (art. 1, c. 129, L.107/2015).

Nondimeno, è quantunque evidente che al dilatarsi delle prerogative sussumibili nella funzione docente (ex artt. 25- 28, CCNL 2006-2009 come novellato dal CCNL 2016-2018) non corrisponde né l’adeguamento stipendiale agli standard medi europei, né un accettabile meccanismo compensativo, in attesa del rinnovo contrattuale. I meccanismi apparentemente meritocratici, nel vincolare la retribuzione accessoria all’assetto performativo, accentuano da un lato l’atavica autoreferenzialità del corpo docente, dall’altro, proprio per la correlata non sistematicità, non incidono sui circuiti motivazionali, in quanto si commisurano, piuttosto, a criteri pseudo efficientisti.

D’altronde, la carriera dei docenti è tale solo in senso improprio: eccettuata l’accesso ai ruoli dirigenziali e decaduta la proposta di riconoscere i “quadri intermedi”, resta la parvità di incarichi retribuiti in modo forfettario, quasi che la figura del docente fosse “remunerabile” con il mero apprezzamento della comunità di appartenenza. Insomma, permane nella percezione sociale (e, osiamo dire, giuridica) il convincimento che un bravo insegnante lo sia anzitutto per “vocazione”, non già per professionalità. Né l’istituzione della “Carta elettronica per l'aggiornamento e la formazione del docente” (art. 1, c. 121, L. 107/2015) smentisce la tesi dello scolamento tra il reticolato mansionistico e l’aspetto retributivo, posto che essa è limitata al solo personale di ruolo e, non essendo monetizzabile, non concorre al reale adeguamento al costo della vita.

Eppure basterebbe una “sbirciata oltralpe” per smentire tale congettura: nel Regno Unito, ad esempio, il docente non è un dipendente pubblico, ma per “qualificarsi” può alternativamente optare per la frequenza di un corso annuale universitario a titolo oneroso ovvero abilitarsi attraverso la pratica scolastica, sottoponendosi, tuttavia, alla successiva validazione della scuola “ospitante”. La possibilità di carriera si articola in graduazioni non gerarchicamente intese: il “docente AST” svolge attività aggiuntive di assistenza ai neoassunti, di consulenza didattico-metodologica e disciplinare; il “docente senior”, gravita nello staff dirigenziale; il “deputy tearcher” è assimilabile alla figura del primo collaboratore ed è nominato attraverso un avviso pubblico; l’“headteacher” è scelto parimenti attraverso una procedura comparativa ed è “sganciato” dall’inamovibilità connotante, nel sistema italiano, le figure apicali prima della stagione di contrattualizzazione del pubblico impiego.

A ben vedere, dunque, si tratta di un quadro pluriarticolato e dinamico. In ogni caso, in Europa, l’anzianità di servizio necessaria per raggiungere il massimo dello stipendio base è mediamente tra i 15 e i 25 anni, eccettuato il caso della Svezia, ove la progressione stipendiale è legata alla misurazione della performance e soggiace a continua negoziazione. In Italia, invece, non esistono differenziazioni retributive codificate che dipendano dall’assunzione di incarichi o dall’aggiornamento professionale.

In attesa che le dichiarazioni del neo ministro Fioramonti si radichino nella realtà, il docente italiano, pur nella società della conoscenza, è sequestrato in un rigoglioso immaginario collettivo ove si sovrappongono le voci di chi dice che “fa tre mesi di ferie e lavora solo di mattina”.

Che la previsione renziana di un’apertura pomeridiana (art. 1, c. 7, lett. “n”, L. 107/2015) sia al momento disattesa è un’altra storia.

di Ilaria Di Leva

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