TORINO - Il reato di paura. Il diritto, lo sa bene chi lo ha studiato, ha tra le proprie caratteristiche quello di giungere sempre dopo i fatti. In altre parole, il diritto non è (quasi) mai anticipatorio della realtà ma altro non fa che disciplinare e codificare ciò che nella vita quotidiana si è già verificato in modo tanto ripetuto e diffuso da necessitare, appunto, di essere regolato.
Ecco, in qualità di giurista, credo che sia giunto il momento di pendere atto dell’introduzione da parte di vari governi (ma del nostro in particolare) di una nuova fattispecie di reato, il “reato di paura”. I fatti parlano chiaro, chiunque nel nostro staterello, manifesti timore nei confronti di quello che volgarmente è conosciuto con il nome “vaccino” deve essere punito. E le punizioni passano dalla sospensione del diritto al lavoro, al divieto dell’esercizio di vari diritti tra i quali: il diritto di manifestare; la libertà di espressione; il diritto allo studio; il diritto di disporre del proprio corpo e molti altri ancora.
Ma il reato di paura non si integra in tutte le fattispecie, laddove infatti questa paura abbia come oggetto il virus del Covid-19 a questo timore pone rimedio il buon sovrano che, nella propria magnanimità, provvede a lenire i timori di una malattia non -come sarebbe logico pensare- rassicurando il popolo dicendo che la stessa uccide lo 0,01 dei contagiati (che è cosa ben diversa dallo 0,01 della popolazione mondiale che sarebbe comunque un dato ben inferiore rispetto altre malattie alla lotta delle quali nessuno stato si è mai prodigato con solerzia nemmeno paragonabile) bensì dispensando gratuitamente i famosi vaccini (quelli verso i quali è reato provare timore).
E come si chiama uno Stato che decide per noi cosa dobbiamo temere e cosa dobbiamo bramare se non stato totalitario? L’analfabetismo funzionale è poi l’anello di congiunzione che fa funzionare il meccanismo perché, come spiegava Hannah Arendt, il suddito ideale di un regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l'individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.
D’altronde quando un presidente del consiglio afferma che: “L'appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente: non ti vaccini, ti ammali e muori. Oppure, fai morire: non ti vaccini, contagi, lui o lei muore'. L'assioma 'non ti vaccini, fai morire', peraltro contraddetto, per come formulato, dalla scienza stessa che oggi dice che anche i vaccinati possono trasmettere il virus perché questo vaccino non crea immunità ma solo attenuazione dei rischi di morte (che peraltro con le cure domiciliari sarebbero ridotti a zero), è stato subito politicizzato, snaturato quindi di ogni veste 'neutrale' -ammesso la avesse per il presidente del Consiglio- e applaudito dalla maggioranza che oggi governa il Paese. Non solo: ha immediatamente spalancato le porte alla rabbia più profonda e viscerale che da sempre alberga nell'animo umano, poi amplificata nei gruppi organizzati.
'I non vaccinati fanno morire!' Questo terribile dogma, apodittico in base alle conoscenze scientifiche per le quali chiunque (magari in forma minore ma non nulla, come dimostra la quotidiana necessità per i vaccinati di fare il tampone per salire su un aereo o molte altre attività), può trasmettere il virus, ha aperto un mondo. Quella frase, al di là di come legittimamente la si pensi sui vaccini, al di là della decisione di sottoporsi o meno alla puntura, ha legittimato di fatto la caccia al nemico, rappresentato appunto dal non vaccinato.
E a poco pare essere servito avere ascoltato le parole di pensatori autorevoli come il premio Nobel Montagnier o il filosofo Agamben, recentemente ascoltato dalla prima commissione affari costituzionali del senato (che a ragion veduta pare avergli dato la parola proprio perché “così non possono dire che non lo abbiamo fatto”) laddove invece le decisioni sul da farsi da molto tempo vengono prese molto lontano dal parlamento. E quindi le parole dei pensatori resteranno ad epigrafe della cronaca di troppe morti già annunciate. Perché, vedete, l’assurdità di ogni regime sta nel fatto che ciò che non si piega alla sua volontà viene direttamente etichettato come “Male”. Ma solo la storia a distanza di secoli dimostra che ogni tentativo di coercizione ha sempre avuto fini e metodi deplorevoli.
Un esempio? Nel XVII secolo Parigi vedeva i poveri spaccati in due -guarda un po’- dal regime sanitario che all'epoca aveva diviso i poveri in “poveri buoni” e “poveri cattivi”. A quel tempo, la Francia cercava di risolvere il problema dei mendicanti fondando un sistema di strutture che avevano come scopo quello di internare con la forza i poveri che comportavano un rischio di rivolta per la borghesia. Si tratta de "La strana repubblica del bene che è imposta -con la forza- a tutti quelli sospettati di appartenere al male” narrata magistralmente da Foucault. L'Ospedale Generale aveva quindi creato due opposte fazioni che servivano entrambe il medesimo scopo: l'internamento.
Da una parte c'erano i poveri buoni: "Pazienti, umili, modesti, contenti del loro stato e degli aiuti che l'amministrazione elargisce loro.", coloro che accettavano spontaneamente le misure discutibili di queste strutture d'internamento; dall'altra i poveri cattivi definiti: "Nemici del buon ordine", coloro che lottando per i propri diritti non sopportavano l'idea di dovere essere letteralmente imprigionati, e rappresentavano una minaccia per nobili e borghesi. Questo modus operandi aveva una duplice funzione: da un lato offriva un (almeno apparente)"beneficio", dall'altro reprimeva e puniva. In entrambe i casi, comunque, i poveri venivano internati.
"Se si è riusciti a mettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l'uomo che si è fuorviato" recitava il motto dell'Ospedale d'Internamento di Mainz.
Potrebbero essere quasi le parole di Mario Draghi a Confindustria, senza nemmeno sforzare troppo l’immaginazione.
di Lorenza Morello
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