Illuminismo e marxismo cattolico per parlare di immaginario collettivo e immaginario individuale

ROMA - E’  un falso “storico” (e ideologico) ripetere che la storia siamo noi. Anche in letteratura. Perché la letteratura porta sulla scena il modificabile della verità. Non sempre. La letteratura vera non muore anche quando viene scavata nel compromesso. Sono del parere che soprattutto in letteratura si siano verificate situazioni a dir poco aberranti.

La letteratura è stata deviata. Il raccontare stesso è stato “orientato”. Attraverso il raccontare si sono create percorsi di una geografia politica, storica, esistenziale fatti di scorrettezza. L’aspetto più grave è che questi percorsi si sono trasformati in immagini, le quali hanno creato un immaginario definito erroneamente “collettivo”.

A mio avviso non si può parlare di immaginario collettivo, bensì di immaginario individuale, personale. Un concetto che chiama in causa due “semi culture”: quella illuminista e quella marxista-cattolica.

Quando in letteratura si fa riferimento al fatto che “la storia siamo noi”, appellandosi al linguaggio del vocabolario letterario, significa che si vuole avallare una deviazione dei fatti stessi, poiché fino a qualche anno fa la letteratura possedeva l’esecrabile vizio della “rappresentazione del reale”.

È pur vero che gli scrittori realisti sono serviti per raccontare uno spaccato di vita politica non approfondendo né la visione dello scrittore, tantomeno ciò che lo scrittore desiderava trasmettere attraverso la rappresentazione di un immaginario. È proprio in questo che consiste il grave torto di una critica letteraria che si è basata sulla “storicizzazione delle ideologie”.

Il cosiddetto “storicismo” non era altro che Positivismo, imposizione di un linguaggio nato durante l’Illuminismo, durante il periodo della Rivoluzione francese.

L’epoca moderna ha come inciso gli anni di fine Settecento. La Rivoluzione francese non ha prodotto solo una filosofia che ha deteriorizzato la cultura nella sua vastità,  ma ha creato anche delle classi come lotta.

La letteratura si è servita di questa visione. Proporre ancora oggi Gramsci, avvalendosi della visione illuminista, è di certo un grave errore sia da un punto di vista storico, che filosofico e letterario. È vero che Gramsci è nato all’interno del marxismo, ma è altrettanto vero che quei modelli di cultura popolare, da lui proposti, non hanno nulla a che vedere con l’ideologia marxista, avendo come presupposto il mondo cattolico indottrinato dalla Chiesa in Una visione relativista.

Il mondo cattolico non è solo quello che appartiene a una Chiesa “aristocrazia – potere”. È anche quello che ha avviato delle riflessioni profonde riguardanti la religiosità popolare. Penso a Papini, al Prezzolini che si è confrontato spesso con la religiosità popolare e penso, soprattutto, alla più grande geografia di antropologi che va da Eliade a Pettazzoni a Cocchiara. Qui sta il grande disagio di una antropologia che si occupa di letteratura.

Tutto ciò ha creato una visione distorta poiché affiliata al potere. Essere affiliati al potere significa possedere la facoltà di distorcere la verità.

La letteratura di Pavese, non solo attraversa, ma supera completamente la dimensione gramsciana e il Naturalismo perché contiene alcuni concetti di base dettati dalla metafisica. Elementi che la letteratura e l’antropologia non hanno mai voluto vedere, o che non sono stati in grado di vedere, non riuscendo così a penetrare aspetti che riguardano quella letteratura che ha segnato il viaggio “irrazionalista”.

La letteratura deve essere irrazionale. Non può avere una logica, perché l’irrazionale è il non logico che guarda con attenzione non al caos in sé, bensì al labirinto, proponendo non un disordine, ma una pazienza. Un ritorno.

Un incastro in cui l’intellettualità, formatasi sotto il potere illuminista, ha sradicato il concetto di tradizione filosofica e letteraria consolidata con Marsilio Ficino e sopravvissuta fino all’epoca barocca. L’illuminismo ha estirpato la tradizione della cultura italiana. Qui sta il nodo di gordio. Quel nodo che ha creato giacobini da una parte e antigiacobini dall’altra. C’erano ieri, ci sono oggi, ci saranno domani. Ma la grande letteratura, o la grande cultura, non è fatta dalle maggioranze, bensì dalle minoranze. Solo le minoranze solcano la profezia attraverso la provvidenza di una vocabolario che è quello fatto dal rapporto tra memoria e destino.

Un discorso molto interessante che rischia di toccare i lembi della filosofia, della letteratura per innervarsi in un pensiero profondamente antropologico. La questione riferita all’Inquisizione è prettamente antropologica, radicata nell’antropos delle civiltà e delle comunità, quindi dei popoli.

In Italia è stato posto il veto di discutere sulla questione del “templarismo”, del Rinascimento che superava qualsiasi forma di teologia dantesca e del Barocco relegato, da un punto di vista letterario, a un percorso minimo, al fine di far emergere un Romanticismo legato strettamente al Risorgimento (o viceversa) che aveva come punta di diamante Alessandro Manzoni. FORSE POST RISORGIMENTALE. Il suo romanzo è il pre Risorgimento.

Una conversione non può convertire un pensiero, semmai un sistema di poteri. Quando si pratica una vita da convertito, si verificano situazioni tragiche da un punto di vista esistenziale. Manzoni non è tragico, è profondamente da commedia. Di una commedia che non ha nulla a che vedere con l’ironia.

Manzoni era colui che avrebbe dovuto  rappresentare l’unione del “compromesso storico”, ovvero l’anello di congiunzione tra il mondo illuminista, positivista, storicista e il falso pudore strategico portato al limite del mondo cattolico.

I due mondi che hanno generato, in epoca moderna, il relativismo. Uno scrittore tragico non avrebbe mai potuto dare vita a una figura così emblematicamente  nevrotica, snervante, leggera come Lucia.

Renzo e Lucia, due personaggi negletti. Forse sì, per usare un termine dannunziano.

Se dovessimo rileggerlo oggi, senza le sovrastrutture storiche e scolastiche, con una visione metafisica, non emergerebbero più Renzo, Lucia o don Abbondio (in fondo Manzoni è il don Abbondio raffigurato), ma la figura di don Rodrigo.

Un personaggio emblematico che  invade l’inizio del Novecento. Studiandolo con attenzione si può intuire come proprio da questo personaggio manzoniano abbia origine la funzione dell’estetica dannunziana. Il fatto che Manzoni ne abbia modificato per tre volte il titolo, mutando alcuni connotati, ci fa comprendere come in lui abitasse una profonda incoerenza e incertezza. Che significato hanno “Renzo e Lucia” rispetto a “I Promessi Sposi” o “Sposi Promessi”? Un dettato che proveniva di certo dal mondo ecclesiastico.

Fino al Cinquecento il nodo cruciale è stata la teologia di Dante. Parlare di teologia significava andare oltre l’arte e il sublime, al di là della forma di poesia pura. Stato di fatto che perdura fino a quasi il Rinascimento.

Sarà Marsilio Ficino a scardinare questa situazione, preludio di un Rinascimento che si tuffa nel Barocco, l’epoca di Tommaso Campanella, di Giordano Bruno, delle grandi invenzioni leonardesche.

L’epoca del confronto con le culture coloniali. Il Barocco napoletano entra nelle colonie del Sud America. A questo periodo seguirà quello buio dell’Illuminismo, della ragione dell’essere. Come è possibile che l’essere possa avere la ragione o viceversa? È inconcepibile sia filosoficamente che sul piano esistenziale.

Finalmente arriveranno D’Annunzio e Pirandello. Arriverà un Novecento completamente metafisico che con Marinetti e il Futurismo romperà questi canoni, sia sul piano formale che linguistico.

Spazzerà via questa ipocrisia protrattasi fino a Carducci, perché già con Pascoli si entra in un’epoca nuova. La storia non siamo noi. La storia è di chi la scrive, purtroppo.

di Pierfranco Bruni

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