Basta con questa retorica resistenzialista. Leggo il Pavese anticomunista e penso a tutti i morti anche repubblichini

ROMA - Il 25 aprile non mi appartiene. Sarà perché  ho letto e riletto Cesare Pavese. Sarà proprio così?  “Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione” (Cesare Pavese).

Quel 25 aprile coinvolse anche uno scrittore come Cesare Pavese? Restano emblematiche alcune pagine di un romanzo straordinario dal titoloLa casa in collina: “…ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato…”. Non è vero che Pavese è da annoverare tra gli scrittori che si sono rifugiati fuori dalla Resistenza o fuori dalla lotta politica tra il 1943 – 1945. Pavese non condivise la lotta armata. Leggere i suoi scritti per credere. Non la condivise né come uomo né come intellettuale.

E non è neppure vero che scrisse Il compagno per farsi perdonare qualcosa. Scrisse questo romanzo per denunciare una situazione ideologica. Così come La casa in collina e  La luna e i falò. In questi due romanzi non c’è assolutamente il disimpegno. C’è invece l’impegno dell’intellettuale e in modo particolare dello scrittore che riusciva a guardare e ad osservare uno spaccato storico non con le lenti dell’ideologia e della demagogia ma con una capacità critica che va oltre ogni pur semplicistica posizione ideologica.

Ho lavorato per oltre quarantacinque anni su Cesare Pavese pubblicando numerosi libri.

Pavese non si disimpegnò. Si impegnò come scrittore. Questo impegno non è chiaramente a misura ideologica. E’ qualcosa di diverso anche se non manca una precisa affermazione culturale. Il travaglio di Pavese è stato un travaglio tutto esistenziale e intellettuale ma che chiedeva una voce, un approccio, un riferimento cristiano. In Pavese questa necessità di dare risposta alla sua coscienza si avvertiva. La letteratura era un attraversamento mitico e simbolico. E questo percorso verso il mito, comunque, costituiva l’altra faccia di una medaglia la cui interpretazione aveva una valenza sacrale.

C’è pathos proprio in La casa in collina. La centralità dell’uomo oltre ogni ideologia. Un messaggio di tolleranza e di pacificazione. Occorre rileggere certe pagine: “Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificarne chi l’ha sparso”.

Il 1936 è l'anno di Lavorare stanca. Poi vennero i "paesi" della rievocazione dei miti sino al 1947 con Dialoghi con Leucò. E poi ancora il mito della casa, come memoria di un luogo e dell'anima, e della collina. Poi ancora la metafora - simbolo della luna e il richiamo ancestrale del falò. Ma l’anno precedente al 1950 è un anno chiave per Pavese. Il 1949 è stato uno degli anni più intensi, e forse più faticosi anche sul piano esistenziale, della vita e della ricerca letteraria di Cesare Pavese. L’anno successivo, nell’agosto del 1950, si uccide in un albergo di Torino, lasciando sul comodino uno dei libri, certamente, più significativi che abbia scritto.

Mi riferisco a Dialoghi con Leucò .  Un libro simbolo nel quale si ripercorre tutto un viaggio all’insegna del mito e del simbolo. Mito e simbolo hanno caratterizzato una chiave di lettura che ha trovato proprio in Pavese un riferimento per quei valori che si identificano nelle radici, nella riscoperta di una appartenenza, nel bisogno di memoria che le civiltà, i popoli, gli uomini hanno. Vita e letteratura dunque nel dramma di un poeta e di un uomo.

Pavese, nonostante tutto, resta uno di quegli scrittori che ha raccontato gli anni della Resistenza, la guerra partigiana e repubblichina con angoscia e pathos. Sempre da La casa in collina: “E verrà il giorno che nessuno sarà fuori dalla guerra; né i vigliacchi, né i tristi, né i soli. Da quando vivo qui coi miei, ci penso spesso…”. Certo non si può parlare di un Pavese disimpegnato. Si serviva degli strumenti della letteratura. Si pensi a La luna e i falò. Un romanzo dichiarazione. Proprio all’inizio del dodicesimo capitolo c’è un inciso di una forza stravolgente: “…quanti poveri italiani che avevano fatto il loro dovere fossero stati assassinati barbaramente dai rossi. Perché, dicevano a bassa voce in piazza, sono i rossi che sparano nella nuca senza processo…”.

E’ inutile ormai spingere verso una letteratura dell’impegno o viceversa. La letteratura non è impegno politico o sociale. Non è neppure divagazione. E’ sostanzialmente dentro il processo esistenziale dell’uomo in una temperie in cui si ha bisogno di nuovi radicamenti. Fare i conti con questo Novecento letterario, e i critici militanti o la critica osservante devono certamente non trascurare, significa aprirlo nella sua globalità e nella sua interezza. Significa, tra l’altro, confrontarsi con i testi e con gli autori tralasciando le teorie precostituite che tuttora hanno una valenza ideologica. La letteratura non va letta con le lenti dell’ideologia.

L’inquietudine di Pavese era profondamente un’inquietudine dettata da principi religiosi. La speranza e la preghiera erano i due “continenti” di cui Pavese si era impossessato proprio negli ultimi anni della sua vita. Una inquietudine religiosa che soltanto agli animi cristiani è dovuta. In merito a questo sono state scritte della pagine sublimi da Carlo Bo, da Geno Pampaloni, da Divo Barsotti. Per Pavese la vita stessa era scrivere. In un suo scritto sottolineava: “Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. (…) I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato. (…) … non si vede con che diritto, davanti a una pagina scritta, dimentichiamo di essere uomini e che un uomo ci parla”.

Non bisogna dimenticare i processi esistenziali che vivono dentro il travaglio letterario e viceversa di uno scrittore. Soprattutto quando questo scrittore si chiama Cesare Pavese. Gli ultimi due capitoli del romanzo La casa in collina sono una testimonianza spirituale di alto valore. E’, comunque, il romanzo della riconciliazione.

Nel penultimo capitolo ancora del romanzo citato la chiesa non è soltanto una struttura o un rifugio. Rappresenta il simbolo, lo si dice chiaramente, dell’attesa, della speranza, della riconcialiazione alla vita. appunto. Rappresenta il bisogno di sacro e di fede per l’uomo contemporaneo che è incarnato da quell’io narrante che è proprio lo scrittore: “Mi fermai contro la chiesa, sotto il sole. Nella luce e nel silenzio ebbi un’idea di speranza. Mi parve impossibile tutto ciò che accadeva…”.

1949. La Seconda guerra mondiale era finita ormai da quattro anni. Il clima della speranza, la ricostruzione della democrazia, il bisogno di riprendere un cammino pur non dimenticando il recente passato: dalla caduta del fascismo alla spaccatura tra due Italie. Quella della Resistenza e quella di Salò. I giovani di allora vivevano ancora tragicamente una divisione proprio nel ricordo di ciò che Pavese aveva raccontato in romanzi come La casa in collina o La luna e i falò. Romanzi in cui la metafora e la realtà sono un intreccio che si esprimono nella visione delle storie e dei personaggi.

Non è vero che Pavese non volle prendere una posizione durante il fascismo e negli anni della Resistenza. La prese e come se la prese. Chi avrebbe potuto scrivere le pagine del diario inedito (pubblicato qualche anno fa con grandi polemiche: ce lo siamo dimenticati di già?) fino a qualche tempo fa e ora pubblicato? Chi avrebbe potuto scrivere quei capitoli de La luna e i falò come sono stati scritti da Pavese con quella crudezza? Capitoli dove si parla che i “rossi” sparano alla nuca o l’ultimo capitolo nel quale si descrive l’uccisione di Santa? Chi avrebbe scritto quelle pagine - simbolo de La casa in collina con quel pathos e con quella umanità che soltanto uomini e scrittori come Pavese hanno saputo fare. Pavese ha raccontato con molto anticipo una “antiresistenza” all’insegna però della riappacificazione.

Il Pavese che continua nella scoperta costante del mito e, attraverso il mito, si va alla rivelazione di una infanzia nella quale si vive l’iniziazione alla vita. Non c’è un Pavese dell’impegno politico. La poesia era tutto e grazie alla poesia cercava di leggere non la storia ma la memoria dei popoli e delle civiltà.

Il paese, i paesaggi, i luoghi e poi la grecità o la mediterraneità, il mare, non amato, ma presente, e le colline non sono un contrasto. Sono un ennesimo richiamo ai valori del tempo che si riconosce nel sogno. Sottolineava: “Senza mito – l’abbiamo già ripetuto - non si dà poesia: mancherebbe l’immersione nel gorgo dell’indistinto, che della poesia ispirata è condizione indispensabile”.

Geno Pampaloni in un suo scritto di alcuni anni fa affermava: “In che senso era religioso Pavese? Non in senso positivo, nel senso di una fede vissuta e indirizzata. Lo era quando identificava la poesia con l’ ‘essere’ (e contrapponeva lo ‘stile di fare’ di Vittorini al proprio ‘stile di essere’). Lo era quando scriveva che ‘la religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante. Non potrà mai sparire dal mondo’, e introduceva l’eternità nella storia. Lo era quando confessava che, alla luce dell’idea di Dio, ‘il tuo travaglio verso il simbolo s’illumina d’un contenuto infinito’”.

Ma c’è una riflessione di Divo Barsotti apparsa  sulla rivista dei frati di Santa Croce “Città di vita” nel gennaio del 1968 che dovrebbe far riflettere con molta serenità pur nello strazio della vicenda umana di Pavese. Ecco: “Dio sembra definitivamente morto per lui. E’ nell’atto in cui egli si dà la morte che Dio ritorna a farsi vivo e presente nell’umile preghiera che invoca pietà”.

Un viaggio tra la luna e i falò nella memoria di un tempo che si raccoglie tra i destini e i miti. Pavese fu un vero scrittore. E resta tale pur in un processo dialettico in cui si può discutere di impegno o disimpegno anche se Pavese ha speso la sua vita per la letteratura. Io sto con Pavese. Io sto in quella fine che fecero fare a Santa e in quel capitolo 11 de "La luna e i falò".

di Pierfranco Bruni

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