Covid-19. Pia Di Marco: pensieri e sguardi sono assoluti, senza relazione con gli altri. Che cosa non va? Coronavirus
ROMA - Che cosa non va? La scrivania è diventata una navicella spaziale, la cabina di comando di un sottomarino, il ventre materno dove sto in ascolto. Che cosa non va? La scrivania come ventre materno mi piace. Silenzio perfetto, qualcuno agisce per noi che ancora non siamo. Ma noi eravamo - prima. Ritorno sui testi del liceo per le lezioni di didattica a distanza: “Conosci te stesso”, dice Socrate. Il re dei Persiani ha uomini ovunque nel suo immenso impero e sono i suoi occhi e le sue orecchie, ha una corte di migliaia di persone e per mantenerle i satrapi tolgono argento e oro alle popolazioni asservite: “barbari”, li chiamano i greci delle póleis, perché balbettano la loro lingua e non conoscono la libertà. Quante divinità nell’Olimpo, non si può spiegare agli adolescenti la crudele dolcezza dei loro miti, non ancora. Del resto, sono loro stessi quelle divinità: nessuno si stupirebbe di vederli guidare il carro del Sole o la macchina di papà e pagarla cara.
La connessione a volte va in tilt, lo smartphone anche, le immagini si deformano, filano, bruciano come comete, le parole si scompongono, suoni disarticolati, fruscii, uno spirito bisbiglia, un personaggio da cartoon emette suoni striduli, ricompongo il numero, la linea è occupata con me che sto chiamando, un paradosso, solo Narciso capirebbe.
Ora è buio, non ricordo quando la giornata è cominciata. Il disegno di un bambino mi arriva in whatsapp, un serpente si snoda nell’aria reggendo una casetta sulla testa, ma no, è una strada piena di curve e la casa è in mezzo al prato. Niente di strano, è un bambino, appunto, come lui hanno disegnato schiere di monaci ai margini dei manoscritti o dentro le accoglienti iniziali di un testo, non si sono dati per vinti neppure davanti a una “I”, avvolgendo intorno alla lettera braccine di profeti o grappoli d’uva salvifica. E che dire di “Natività” che galleggiano sulla testa di pastori accorsi per primi al Presepio e perciò al livello più basso di composizioni senza prospettiva?
Manca la prospettiva in questo strano tempo virale, in cui tutti siamo chiusi in casa. Pensieri e sguardi sono assoluti, senza relazione con gli altri. Fino a due mesi fa, il quadro era diverso, scenette con personaggi minuscoli, sullo sfondo, evocavano fatti di un altro tempo rispetto a quel che accadeva in primo piano; si dava anche il caso di eventi contemporanei, ma distanti nello spazio: si eleggeva un punto d’osservazione e da lì partivano linee costanti di relazioni fra me, gli altri, le cose.
Ora è tutto in primo piano, a nulla vale rimpicciolire le figure: la scrittura non viene, le facce sulle piattaforme nelle videoconferenze stanno le une sulle altre come francobolli in un albo.
Siamo in guerra, si dice. Una signora mi aveva raccontato la storia del suo nome di battesimo. Suo padre era in guerra (la prima,1915 -‘18) scoppia una bomba, la terra lo seppellisce, il compagno lo salva, diventano inseparabili: “il mio primo figlio avrà il tuo nome”, si promettono a vicenda. E’ la trincea: scarpe di cartone in mezzo alla neve, mani che scavano, afferrano, tolgono la terra intorno agli occhi e alla bocca di un altro.
Mio padre cercava di tornare al suo paesino in Abruzzo - mi racconta un amico - erano i giorni dopo l’8 settembre 1943, era scappato da un campo di concentramento a Vetralla, di lì a poco li avrebbero portati tutti in Germania. Si buttava dai treni in mezzo alla campagna appena vedeva i tedeschi, giorni e giorni, avanti e indietro. Si era salvato perché le donne lo avevano nascosto sotto i sedili e coperto con le ampie gonne nere. Mani, scarpe vecchie, caviglie gonfie, stoffe polverose e rigide sul corpo snello di un ragazzo: sensazioni, sentimenti, io, tu, loro, è la guerra.
Non ci sono più mani, odori, il viso di un passante. Dalla piattaforma digitale arriva il materiale per la lezione di filosofia: “Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi”. Che cosa non va?
La connessione a volte va in tilt, lo smartphone anche, le immagini si deformano, filano, bruciano come comete, le parole si scompongono, suoni disarticolati, fruscii, uno spirito bisbiglia, un personaggio da cartoon emette suoni striduli, ricompongo il numero, la linea è occupata con me che sto chiamando, un paradosso, solo Narciso capirebbe.
Ora è buio, non ricordo quando la giornata è cominciata. Il disegno di un bambino mi arriva in whatsapp, un serpente si snoda nell’aria reggendo una casetta sulla testa, ma no, è una strada piena di curve e la casa è in mezzo al prato. Niente di strano, è un bambino, appunto, come lui hanno disegnato schiere di monaci ai margini dei manoscritti o dentro le accoglienti iniziali di un testo, non si sono dati per vinti neppure davanti a una “I”, avvolgendo intorno alla lettera braccine di profeti o grappoli d’uva salvifica. E che dire di “Natività” che galleggiano sulla testa di pastori accorsi per primi al Presepio e perciò al livello più basso di composizioni senza prospettiva?
Manca la prospettiva in questo strano tempo virale, in cui tutti siamo chiusi in casa. Pensieri e sguardi sono assoluti, senza relazione con gli altri. Fino a due mesi fa, il quadro era diverso, scenette con personaggi minuscoli, sullo sfondo, evocavano fatti di un altro tempo rispetto a quel che accadeva in primo piano; si dava anche il caso di eventi contemporanei, ma distanti nello spazio: si eleggeva un punto d’osservazione e da lì partivano linee costanti di relazioni fra me, gli altri, le cose.
Ora è tutto in primo piano, a nulla vale rimpicciolire le figure: la scrittura non viene, le facce sulle piattaforme nelle videoconferenze stanno le une sulle altre come francobolli in un albo.
Siamo in guerra, si dice. Una signora mi aveva raccontato la storia del suo nome di battesimo. Suo padre era in guerra (la prima,1915 -‘18) scoppia una bomba, la terra lo seppellisce, il compagno lo salva, diventano inseparabili: “il mio primo figlio avrà il tuo nome”, si promettono a vicenda. E’ la trincea: scarpe di cartone in mezzo alla neve, mani che scavano, afferrano, tolgono la terra intorno agli occhi e alla bocca di un altro.
Mio padre cercava di tornare al suo paesino in Abruzzo - mi racconta un amico - erano i giorni dopo l’8 settembre 1943, era scappato da un campo di concentramento a Vetralla, di lì a poco li avrebbero portati tutti in Germania. Si buttava dai treni in mezzo alla campagna appena vedeva i tedeschi, giorni e giorni, avanti e indietro. Si era salvato perché le donne lo avevano nascosto sotto i sedili e coperto con le ampie gonne nere. Mani, scarpe vecchie, caviglie gonfie, stoffe polverose e rigide sul corpo snello di un ragazzo: sensazioni, sentimenti, io, tu, loro, è la guerra.
Non ci sono più mani, odori, il viso di un passante. Dalla piattaforma digitale arriva il materiale per la lezione di filosofia: “Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi”. Che cosa non va?
Ricerche Correlate
Commenti
Posta un commento