Macerie del terremoto e dell'amore, La parola smarrita di Pasquale Cominale

NAPOLI - Ci sono eventi nella vita che segnano per sempre. Ci sono penne mosse da anime sensibili che quegli eventi trasformano in opere letterarie. Un terremoto, quello del 1980, uno scrittore, Pasquale Cominale, un libro, "La parola smarrita". Il volume dalla lunga genesi ha l'introduzione di Daniela Raimondi e una nota conclusiva di Francesca De Sanctis. Un dramma, una palingenesi. L'autore, poeta e saggista, ha all'attivo molte opere. Di grande interesse storico e sociologico il suo "Innamerica. Lettere di emigranti sessani ai familiari - 1917-1941" per i tipi di Loffredo.

Cominale, quando e perché nasce "La parola smarrita"?

«Le prime pagine de "La parola smarrita" risalgono al mese di dicembre del 1980. Ero, allora, militare a Caserta, presso la Scuola Truppe Corazzate. Poco tempo prima, il 23 novembre, c'era stato il terribile terremoto che, soprattutto in Irpinia, aveva portato tanta distruzione e provocato circa 3.000 morti. La mia caserma, in pochi giorni, divenne un grande deposito per tutto quanto potesse essere portato nelle zone terremotate: qua e là, da ogni parte, all'aperto o sotto i capannoni, mucchi e pile di indumenti, di cibo, di utensili, di attrezzi… E di bare. Anche bare. Un grande, e alto, mucchio di bare…

Rimasi in fureria per giorni, senza togliermi la mimetica e i pesanti scarponi; e anche la branda feci portare in quella stanza: il mio compito, ricevuti gli ordini, era, in qualsiasi ora del giorno o della notte, quello di raggruppare i militari che sarebbero dovuti partire per le zone terremotate, per scavare tra le macerie o per portare aiuti. Furono, naturalmente, giorni estenuanti. Tanto che, un mattino, dopo alcuni giorni, affinché mi "distraessi", il mio sottotenente mi volle con lui, a consegnare una cucina da campo: e vidi, così, macerie, vidi volti disperati, dolore, lacrime… E, senza volerlo, affiorate dalle emozioni e dallo sconforto di quei giorni, quasi tratte dalle macerie e dalle lacrime di tanti disperati, cominciai a scrivere le prime pagine: una scrittura che, in seguito, senza continuità – abbandonata, e, poi, ripresa; ampliata, e, poi, messa da parte – mi ha accompagnato dal 1980 al 1993, da Caserta a Colle Val d'Elsa, da Siena a Cascano, per più di dieci anni».

Perché la parola si può smarrire?

«Alcune parole – perché i linguaggi vivono assieme agli uomini, e mutano, così come le culture e gli habitat – possono essere poco adoperate, messe da parte, addirittura dimenticate. Nel mio testo, "la parola smarrita", che dà il titolo al libro, non è una parola antiquata, non è stata soppiantata da un'altra, straniera, né è disusata: è, anzi, una parola da sempre troppo adoperata, da sempre, purtroppo, sminuita o fraintesa, male interpretata e malamente realizzata: è la parola "amore", quella che gli uomini hanno smarrito, quella che, oggi, è agonizzante, seppellita – come i morti sotto le macerie del terremoto – da altre rovine, da altri sentimenti, l'ipocrisia, l'indifferenza, l'intolleranza, l'odio…».

Versi che grondano dolore, versi da recitare, versi da sussurrare. Perché ha scelto questa modalità di scrittura?

«Ho voluto, semplicemente, dare voce ai morti, alle migliaia di morti di quel 23 novembre. Non un racconto, non una cronaca, ma solo le parole ultime: semplici, e inermi. Solo, dinanzi alla tragedia, e prima della segreta eternità, le povere voci dei morti. Incominciando a scrivere, dinanzi a tanto dolore, dinanzi a tanta tragedia, perfino la poesia, che fosse discreta o modesta, mi era sembrata inadeguata e sovrabbondante. Doveva, la mia scrittura, solo trarre voci. Voci, e dolore. Le voci di quelle spoglie martoriate, il silenzio della morte. Voci e silenzio. Niente altro. E così, quasi senza volerlo, dopo alcune pagine mi resi conto che ne sarebbe venuto fuori quasi un "oratorio", un testo adatto al teatro».

Anni di distanza tra le parole del suo libro e i fatti che lo hanno generato...

«Di solito, la mia scrittura ha bisogno di tempo. Come se le parole, come se i pensieri avessero bisogno del tempo, per sedimentare, per chiarirsi, per liberarsi dalle scorie e dal superfluo, per trovare quanto è nascosto: nuova linfa, diramazioni diverse, altre sonorità. Nel caso de "La parola smarrita", né esigenze estetiche, né incertezze formali, hanno posticipato la sua conclusione. È accaduto, invece, che il terremoto del 23 novembre 1980 si è dilatato per altri motivi: mentre scrivevo, mentre provavo a scrivere, ogni volta che il manoscritto mi era davanti, quelle voci, quei morti, quel grande e alto mucchio di bare, di diversi colori, di dimensioni differenti – ricordo, con identica angoscia, una piccolissima bara bianca, con su scritto "Dono del Comune di Cinisello Balsamo" – si impadronivano così tanto dei miei pensieri, opprimevano così tanto il mio cuore, che ero costretto a fermarmi. E, per non essere schiacciato da quelle voci, dovevo ancora seppellirle. Riaffidarle ad un nuovo momentaneo silenzio. Fino a che qualcosa – un'immagine, o una preghiera, oppure un grido, o un'eco – non me le avesse riportate sulle ciglia, tra i palpiti… E sono, così, trascorsi anni, molti anni, decenni… E pure quando il testo de "La parola smarrita" era definitivamente terminato, nonostante l'introduzione di una nota poetessa e scrittrice, Raimondi, nonostante la postfazione di De Sanctis, giornalista e valente critica teatrale, pure allora, per lo stesso motivo, neanche ho provato a pubblicarlo».

Cos'è il tempo di fronte alla tragedia?

«Il tempo, dinanzi alla tragedia, dinanzi alle tragedie umane, è come la polvere. (È la polvere che si sta impadronendo delle vite dei personaggi de "La parola smarrita", la polvere che, leggera, li porta nel silenzio, nel nulla…) Gli uomini, in vita, provano a toglierla. Per poco si illudono di riuscirci. Ma il tempo, tra attese e illusioni, tra splendori, tenebre e affanni, scorre: e gli uomini sanno, ogni uomo sa, che la polvere si depositerà ancora… Fino a confondere la vita e la morte. Fino a ricoprire ogni cosa. Fino a colmare tutto, di sé».

di Nadia Verdile

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