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| L'Infinito e Giacomo Leopardi |
MILANO - Il bicentenario de "L'Infinito" di Leopardi: un'analisi del capolavoro della letteratura italiana. L’Infinito di Leopardi compie 200 anni: celebrazione di un verso eterno. Nel mese di dicembre del 1825, sulle pagine de Il Nuovo Ricoglitore, compariva per la prima volta una poesia destinata a entrare in maniera indelebile nel patrimonio culturale italiano: L’Infinito di Giacomo Leopardi. Due secoli dopo, questa lirica rimane uno dei vertici assoluti della letteratura europea, un breve componimento capace di racchiudere l’immensità del pensiero umano e la vertigine del suo rapporto con il mondo. A duecento anni dalla prima pubblicazione, il fascino di questi quindici versi non soltanto non si è affievolito, ma sembra rinnovarsi a ogni generazione di lettori, studiosi, studenti che in essi riconoscono un frammento di universalità. Scritta probabilmente tra il 1818 e il 1819, quando Leopardi era poco più che ventenne, la poesia fu pubblicata soltanto nel 1825, nello stesso periodo in cui il poeta maturava con crescente consapevolezza il senso della precarietà dell’esistenza e dell’impossibilità dell’uomo di raggiungere una piena conoscenza del reale.
Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio
L’immagine del colle, dell’orizzonte e dello sguardo che per poco il cor non si spaura rappresenta l’esperienza concreta di un giovane relegato nel suo borgo natale, Recanati, e al tempo stesso l’esperienza astratta e assoluta di tutti coloro che si sono affacciati almeno una volta sul mistero dell’infinito. Ciò che ancora oggi colpisce è il modo in cui Leopardi riesce a trasformare una scena minima, quasi domestica, in un viaggio vertiginoso del pensiero. Il poeta si siede su una collina, contempla una siepe che limita la vista e, proprio grazie a quel limite, immagina ciò che sta oltre. L’Infinito nasce dunque da un contrasto: il confine stimola la fantasia, l’ostacolo diventa apertura, la finitezza del mondo sensibile spalanca l’orizzonte del possibile. È nella tensione tra visibile e immaginato che esplode la grandezza dei versi finali: Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare. Qui la metafora marina esprime un abbandono totale, una resa felice all’indefinito, un piacere profondo che scaturisce dalla perdita dei confini e dalla dissoluzione dell’io nel fluire dell’infinito. Rileggere oggi questi versi significa interrogarsi sul rapporto tra l’uomo contemporaneo e ciò che non ha misura. In un’epoca segnata dalla velocità, dalla precisione digitale, dai dati che fungono da unità di misura del reale, Leopardi invita a un esercizio opposto: contemplare l’incommensurabile,
di Stefania Romito
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