Donna e non solo Social. Contemporaneamente davanti e dietro all’obiettivo di una fotocamera, regista e protagonista di se stessa
NOVARA - Questi corpi che “contano”. “È ora di effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne – è ora di restituir loro la dignità perduta – e di far sì che esse, come parte della specie umana, operino, riformando se stesse, per riformare il mondo.” Così scriveva Mary Wollstonecraft nella sua opera, Rivendicazione dei diritti della donna, pubblicata a Londra nel lontanissimo 1792. Frasi come queste, frequenti nel libro, apparvero sovversive e fuori luogo, data la tradizionale immagine della donna in quei tempi.
Certamente da allora molte sono state le conquiste, le più importanti fra tutte riguardano i diritti civili e politici, ottenute grazie alle lotte dei vari movimenti femministi che hanno preso forma negli anni.
Oggi, in Occidente, appare un dato assolutamente comune, scontato, dovuto, che una donna possa vivere del suo lavoro, viaggiare da sola, scegliere le persone con cui relazionarsi e con cui avere o non avere figli.
Se la liberazione della donna è stato il primo obiettivo che il pensiero femminista si è posto, il secondo obiettivo, strettamente connesso al primo, è stato ed è ancora un lavoro di costituzione e costruzione dell’identità femminile che passa anche attraverso la ricerca di un linguaggio femminile che permetta alle donne di pensare, parlare e raccontarsi partendo dal sé e costruire modelli simbolici alternativi in grado di dare vita ad un sistema di identificazioni positive.
Una delle constatazioni di buona parte delle teoriche del pensiero femminista è stata la consapevolezza che l’immagine della donna giunta a noi non proviene dalle esperienze delle donne reali, dalle loro storie quotidiane, dalle loro lotte e dal loro desiderio, poiché esse non sono mai state messe nella condizione reale per poter dare vita ad una rappresentazione autonoma e veritiera della loro femminilità. La donna non possiede un suo linguaggio e parla di sé attraverso il linguaggio maschile, che nella semantica stessa rivela un carattere di appropriazione nella dinamica tra i sessi e pone in essere il potere maschile e la subordinazione femminile con una relazione soggetto (maschio) oggetto (femmina).
Da qui la critica e la lotta contro il sessismo nel linguaggio parlato, ma anche vissuto, (attraverso il corpo maschile e femminile), che abusa del corpo delle donne con immagini (nelle pubblicità per esempio) che ne mortificano la dignità e le riducono ad oggetti disponibili all’uso e consumo dell’uomo.
Ma quando sono le donne stesse che usano il proprio corpo (il mio riferimento non riguarda account su social o siti esplicitamente pornografici) e diffondono, attraverso il web immagini erotiche, sensuali, accattivanti che spesso veicolano un messaggio di disponibilità sessuale, che ne è di tutte le conquiste femministe? Come si è sedimentato il pensiero femminista nelle nuove generazioni? Possiamo ancora parlare di femminismo?
Indubbiamente i social network come forma di comunicazione di massa hanno attivato dispositivi che hanno amplificato la percezione delle donne come oggetto, passive, obbedienti (consapevoli o no) di essere lì pronte a soddisfare ogni desiderio maschile pur di essere considerate, pur di avere un numero considerevole di follower, di like, di visualizzazioni. Dobbiamo anche ammettere che molte (troppe) donne si pensano, si vedono ancora attraverso occhi maschili e le immagini che offrono di loro stesse parlano di un “sono come tu mi vuoi” piuttosto che di un “sono ciò che voglio essere”.
Per molte di noi è così, ma non per tutte.
Quando le donne vogliono uscire dallo sfruttamento non distruggono soltanto pregiudizi, ma travolgono tutto l’ordine dei valori dominanti: economici, sociali, morali, sessuali, mettendo in discussione ogni teoria, pensiero, linguaggio, veicolati dal maschio.
Al di là di una naturale vanità nel mostrarsi che appartiene a uomini e donne, usare il proprio corpo facendosi selfie per pubblicarli sui social può anche significare per una donna demolire stereotipi maschilisti, scegliere liberamente come rappresentarsi, quale immagine offrire di sé, essere contemporaneamente davanti e dietro all’obiettivo di una fotocamera, regista e protagonista di se stessa.
I corpi contano: così alcuni slogan femministi degli anni '70
“Donne riprendiamoci il nostro corpo”
“Io sono mia, l’utero è mio e lo gestisco io”
La rivendicazione di essere donne “soggette” poiché considerare l’altro solo come il proprio oggetto è il primo atto di violenza, anche se non lo percepiamo come tale ed anche se non si esplicita manifestamente come violento. Soggette tanto da non permettere più a nessuno di intendere i corpi e le menti femminili come oggetti sempre disponibili, estensione di una proprietà e di un dominio naturale dell’uomo.
I corpi contano, sempre: uomini e donne nel mondo esistono e si relazionano attraverso i corpi: anche nelle immagini il nuovo linguaggio femminile chiede una relazione tra i sessi che vuole essere tra due soggetti.
Amore, sesso, erotismo, una rappresentazione dell’immagine femminile intesa come “non più puttana, non più madonna, finalmente donna”
La donna si definisce come soggetto desiderante e non più come oggetto desiderato.
di Monica Daccò
Ricerche Correlate