La Pietà di Ponte Sant’Angelo. Pier Paolo Pasolini, ma sì, è lui. Inconfondibile. E Pia Di Marco

ROMA - La Pietà di Ponte Sant’Angelo. Pasolini, ma sì, è lui. Inconfondibile. Pier Paolo Pasolini sotto  Ponte Sant’Angelo. Guarda fisso in direzione di quelli che s’affacciano sul ponte,  ha uno sguardo interrogativo… ma no, non è così, lui non ha niente da domandare, lui sa. Ha in braccio qualcuno…  un ragazzo, forse uno dei suoi ragazzi di vita.

Perché laggiù?

Le gambe divaricate, la figura snella, consumata dalla pena, il viso scarno: come non riconoscere quel viso, anche da lontano?
Il ragazzo ha il braccio penzoloni, sembra Cristo della Pietà di Michelangelo, la maglia sollevata sul petto ricorda il lembo del mantello della Madonna sul costato del Figlio morto. Anche lui è morto. Annegato. Pier Paolo lo ha ripescato, lo tiene stretto a sé, ne sopporta il peso, per questo ha le gambe divaricate;  non lo guarda in viso, come fa la Madre, guarda noi, ci dice che quel ragazzo è figlio nostro.  E che noi lo abbiamo ridotto così.

Perché laggiù?  
L’illustratore  ha dovuto imbiancare il fondo, le vecchie pietre ingiallite, le scolature di grigio avrebbero impedito all’immagine di balzar fuori. Un lavoro da maestro, un lavoro clandestino, fatto di notte o, con più probabilità, all’alba: c’è un sapiente gioco di luci e una prospettiva formidabile, tutto calcolato, riuscito, senza studi preparatori - non ce ne sarebbe stato il tempo: i vigili urbani arrestano gli artisti metropolitani.

Perché laggiù?
Accattone, ma certo, il film di Pasolini. Accattone con la sua aria scanzonata si tuffa da Ponte Sant’Angelo: è il suo momento di gloria, quando ancora pensa di sfidare la società; quando la sua vita tra le borgate è l’esempio negativo, il vessillo dei perdenti e perciò delinquenti. Lui è un pappone innocente come un lattante, violento e fragile, immacolato nella sua malvagità e sacro, come tutte le creature dissacrate e dissacranti. Inseguito, disilluso, sconfitto nel tentativo di integrarsi, di diventare uno “perbene”, Accattone cade, fatalmente, col suo motorino; una volta aveva sognato il proprio funerale: s’era spaventato, ma, forse, quel che aveva davvero sognato era  l’inconsistenza delle proprie certezze, di quelle giornate da cicala al sole, da pischello spavaldo, consapevole che tra lui e il mondo, la peggio l’avrebbe lui. “Mo so’ felice” dice, morente, a chi gli solleva la testa dall’asfalto.

Perché laggiù?
Gran maestro questo writer metropolitano. Ha capito che il tuffo glorioso di Accattone da Ponte Sant’Angelo è  una sconfitta. Ha capito che  quella figura nuda, disarmonica, modellata dalla povertà e dall’angoscia giovanile appartiene a una vittima. La sua Pietà, così vicina, a quella michelangiolesca - San Pietro è a un colpo di vento da qui –,  la sua Pietà sotto Ponte Sant’Angelo ci dice che Accattone  è Cristo e che Cristo è  ogni ragazzo difficile, nelle borgate degli anni Sessanta come nel magma urbano del nuovo  Millennio.

Scendo la rampa che porta al greto del fiume, voglio vedere se ci sia una firma, un segno, un indizio. No, solo fiori marci, odore di marcio, acque limacciose di un Tevere non più biondo, dove nessuno si tufferebbe.

di Pia Di Marco

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