Cesare Pavese caduta della modernità. Nella morte siamo il tragico, poi creiamo generazioni bugiarde

ROMA - Il coraggio della verità disorienta il conformismo. Non solo nella vita ma anche nella cultura. Anche nella letteratura. Il coraggio della coerenza rende forti ma crea antipatia. Scoprire le carte svela gli incapaci e gli illusionisti. Le ricordanze sono memorie timide. Ci vuole una forte Memoria per creare il senso al tramonto delle idee. Si vive di Tramonti. Quando le Idee si fanno superflue la leggerezza prende il sopravvento. In che tempo viviamo? Nel Tempio delle contraddizioni e delle Cadute.

Cesare Pavese aveva ben capito tutto ciò.  Sussiste un problema di fondo legato a Cesare Pavese che la critica strutturalista, marxista e ideologica non ha mai compreso e, quindi, superato. Pavese, dopo D’Annunzio, è senza dubbio il più originale scrittore del Novecento. Un dato di fatto e non la personale visione di uno scrittore che vuole creare una comparazione tra la propria scrittura e quella di Pavese.

L’innovazione in letteratura è stata portata da Pavese. Un rinnovamento che consiste nel ragionare oltre le ideologie. Un’indole che per uno scrittore che inizia a produrre tra il ‘34  e il ’35, in pieno clima fascista, rappresenta un grosso problema, un vero e proprio tabù che diventa un totem all’interno di una scuola di pensiero che era quella di Bobbio, del suo docente di Lettere classiche e della famiglia ebraica Ginzburg.

La scrittura di Pavese, soprattutto in “Lavorare stanca”, rompe con gli steccati imposti da un clima ermetico imperante, proponendo una letteratura coraggiosissima. Una letteratura-saggio dalla scrittura non scorrevole, recuperando la lezione cardarelliana. Cardarelli era un autore che aveva scritto l’inno alle camicie nere.

Dopo il ’45  uno scrittore come Pavese non poteva stare bene ad una scuola di pensiero che nasceva da Bobbio, dal senso della contraddizione vera e propria e dall’incoerenza. Si sono, quindi, venuti a creare i presupposti per annientare la figura di Pavese. Uno tra i primi scrittori ad aver tentato di farlo è stato Moravia con la sua dichiarazione ufficiale nella quale sottolineava la costante tristezza di Pavese, il suo carattere pesante e il fatto che non avesse compreso nulla della vita.

Niente di più falso.

Pavese non era affatto triste, tantomeno depresso. Basti leggere le sue lettere a Federica (collega all’Einaudi) per rendersi conto di quanta ironia vivesse in lui. Esistono lettere scritte da Natalia Ginzburg, Pavese e molti altri indirizzate a Federica, la quale manteneva i contatti tra le varie filiali della casa editrice a Roma, Milano e Torino. Lettere dalle quale emerge l’importante ruolo ricoperto da Pavese che non si risparmia nel fornire indicazioni, giocando con quella peculiare ironia, mai tragica, che contraddistingue i “grandi spiriti liberi”. Una persona libera, alto più di quattro spanne rispetto agli altri.

Ad aver introdotto la vera antropologia in letteratura è stato proprio Pavese. Quando scrisse i suoi saggi sul “selvaggio”, nessuno aveva ancora intuito il legame tra letteratura, mito e senso del primitivo. Pavese proviene da studi vichiani, legati alla cultura di Eliade, un filosofo totalmente sconosciuto ai suoi tempi. Lottando contro De Martino, Pavese fece pubblicare nella “collana viola” non solo Eliade, ma anche Malinowski e diversi altri personaggi malvisti all’antropologia italiana.

Pavese riusciva sempre a vedere oltre la barricata italiana, proponendo una letteratura che interagiva con l’antropologia e un’antropologia che interagiva con la letteratura.

Soltanto di recente ci si è resi conto che l’antropologia e la letteratura, l’antropologia e la poesia potevano comunicare tra di loro. Pavese aveva evidenziato questo aspetto già nel 1940. La Calabria per lui ha rappresentato un vero e proprio laboratorio in cui il senso del primitivo diventa fondamentale. Concia è un personaggio simbolo che ritroviamo anche in altri suoi romanzi e che viene metaforizzato dalla figura di Bianca.

Concia è l’ultimo vero personaggio che inventa, ovvero la Santa de “La luna e i falò” la cui morte segna i termini di una cultura primitiva. Il suo corpo privo di vita viene dato alle fiamme. Rimarrà solo il falò e la cenere illuminata dalla luna. Il romanzo si chiude con questa immagine antropologicamente vissuta che rimanda a quella Concia che gorgheggiava e non parlava nel primo romanzo “Il carcere”. Un personaggio che ritorna nell’immaginario individuale di Pavese. Uno scrittore che non concepisce l’immaginario collettivo, bensì solo quello individuale, rompendo gli steccati con il marxismo in pieno clima fascista.

Un atteggiamento che non gli verrà mai perdonato, nonostante la sua successiva iscrizione al Partito Comunista e la sua collaborazione giornalistica con l’Unità. Come spiegherà in una lettera scritta a Federica, tutti coloro che lavoravano alla Einaudi dovevano avere la tessera del Partito Comunista.

Dettagli che non si conoscono o che si desidera nascondere. Ma Pavese è colui che ha tradotto Nietzsche, offrendo una traduzione innovativa di “Aldilà del bene e del male” e di “Così parlò Zarathustra”. Se non si riesce a capire il senso del Pavese personaggio e scrittore emblematico, dopo D’Annunzio, è difficile comprendere la letteratura. Pavese non amava l’ideologia e i gruppi. Amava vivere solo. Un nuovo Ovidio, libero da corti e cortigiani. Alla nipote, quando gli chiese di aiutarlo a scrivere una tesina su Carducci, rispose che era meglio che andasse a fare una passeggiata nei campi, piuttosto che studiare Carducci, in un’epoca in cui era considerato un Vate.

Pavese era malvisto in ambito cattolico e marxista. Due realtà che hanno contribuito a distruggerne l’immagine di intellettuale colto, superiore agli altri, creando il mito di  Italo Calvino che oggi viene considerato un Maestro. Pavese lo aveva soprannominato “lo scoiattolo”, perché rubava e poi scappava. Sarà proprio Italo Calvino a diventare tutore dell’Einaudi dopo la sua scomparsa. Pavese si rifiutò di pubblicare il libro di Primo Levi “Se questo è un uomo” all’interno della collana di narrativa, poiché lo riteneva un libro di cronaca, mettendosi così contro alcuni poteri forti (mondo ebraico, cattolico e marxista) che hanno cercato di azzerarlo, soprattutto in ambito scolastico. Primo Levi è considerato dal mondo ebraico il grande scrittore universale, ma il vero scrittore dell’originalità resta Pavese. Si pensi a “Dialoghi con Leucò” nel quale riconsidera il mito greco alla base di tutto. La grecità, il rapporto con il Mediterraneo che diventa fondamentale. Elementi che scopre in Calabria insieme alla concezione del mare vissuta come “quarta parete”. Una visione emblematica che Alvaro non vede e non riesce a recepire, continuando a rimanere lo scrittore di “Gente in Aspromonte”, pur non essendolo. Ma l’ideologia imperante lo considera tale. Quella stessa ideologia che giudica Pavese per “Lavorare stanca” ignorando grandi capolavori tra cui “Feria d’agosto”, il primo testo di antropologia della cultura moderna. Una ideologia che ha falsificato non solo la storia e il vero significato di uno scrittore come Pavese, ma soprattutto l’intero percorso della letteratura italiana.

La letteratura può avere un orizzonte? La letteratura è decadenza del canto dell’anima. La provvisorietà ci incammina oltre. Siamo morti nella vita. Nella morte siamo il tragico. Cesare Pavese è la caduta della modernità! Oltre la storia. La storia ha le ferite del tempo. Si muore di storia. La storia è anche menzogna. Se non si riesce a comprendere ciò si creeranno generazioni bugiarde.

di Pierfranco Bruni

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