Raffaello catturò ciò che Dante visse nel veder le stelle. La luce che divenne non mistero soltanto, ma Grazia
ROMA - Raffaello tra venerazione e materia a 500 anni dalla scomparsa. Era il 6 aprile del 1521 quando Raffaello Sanzio morì. Era il venerdì Santo. Aveva soltanto 37 anni. L'artista della luce che trasformò l'arte in un viaggio che è diventato sublime.
Ci parlò delle donne. La materia e la venerazione. Ci raccontò Pietro e Paolo nella chiarezza della Sistina. Ci elevò sino a condurre li sguardo verso la Madonna di Foligno. Seppe dare un taglio netto alla visione tra le donne e le Madonne. Rimase sempre nella profezia e nel mistero senza mai scivolare nella teologia.
Ci portò dentro la Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor penetrando la coscienza con la consapevolezza che nella religiosità, ovvero nella devozione, si vive senza cedere al limite. Raffaello, artista del non limite. Dipinse non la ricerca del bello, bensì la Bellezza tanto da fargli dire:
"Per dipingere una bella (donna) mi occorrono più belle".
Catturò ciò che Dante visse nel veder le stelle. Ovvero, la luce che divenne non mistero soltanto, ma Grazia. La materia, la carne, il corpo vennero trasformate in metafisico sguardo, in contemplante osservazione, in metafora del tempo. Si specchiò nel suo Autoritratto del 1504 - 1506. Diede forma all'infinito non cercando luoghi. La perfezione fu il suo stile e proiettò il paradigma nelle epoche successive sino a far dire a Pietro Bembo le famose parole incise sulla sua tomba al Pantheon:
"Qui è quel Raffaello da cui, fin che visse, Madre Natura temette di essere superata e quando morì temette di morire con lui".
In piena età rinascimentale individuò ciò che sarebbe stato il Barocco e nella classicità diede voce all'arte come paradiso. Paradisiaco il suo viaggio breve esistenzialmente, ma intenso nel suo sublimare ogni forma e ogni materia.
Colore e forma fecero di lui il mistero della creazione. Il mistero nella "distribuzione" della luce. Ogni suo tratto venne abbellito con ritmo.
Maria Zambrano scrisse che:
"In Raffaello c'è la scena, ma il dramma non è umano, è religioso; ciò che li si mostra è un mistero, un mistero della Religione".
Un mistero metafisico, completamente metafisico, che va oltre la fede stessa per una provvidenziale profezia iniziatica. Non cercò ma trovò sempre. Sarebbe potuto diventare Santo, o meglio lo avrebbero potuto beatificare sino a teologizzarlo nei Cieli, ma restò terra e dalla terra creò bellezza anche dopo la morte e ci consegnò il testamento del divino, del sacro e del mito tra Atene la Madonna del cardellino, tanto cara a Gabriele D'annunzio nel suo pacificante "Notturno".
Dalla Adorazione dei Magi alla Visione della Croce una liberante attesa che ha un solo nome: venerazione della bellezza.
Nel 1568 Giorgio Vasari scrisse nelle sue "Vite de' più eccellenti pittori, scultori ed architettori":
"Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo nell'accumulare in una persona sola l'infinite ricchezze de' suoi e tutte quelle grazie e' più rari doni che in un lungo spazio di tempo suol comparire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffaelo Sanzio da Urbino".
Il sacro nella classicità del mito si intrecciano per fare un indivisibile cerchio tra sublimazione e bellezza.
Ci parlò delle donne. La materia e la venerazione. Ci raccontò Pietro e Paolo nella chiarezza della Sistina. Ci elevò sino a condurre li sguardo verso la Madonna di Foligno. Seppe dare un taglio netto alla visione tra le donne e le Madonne. Rimase sempre nella profezia e nel mistero senza mai scivolare nella teologia.
Ci portò dentro la Trasfigurazione del Signore sul Monte Tabor penetrando la coscienza con la consapevolezza che nella religiosità, ovvero nella devozione, si vive senza cedere al limite. Raffaello, artista del non limite. Dipinse non la ricerca del bello, bensì la Bellezza tanto da fargli dire:
"Per dipingere una bella (donna) mi occorrono più belle".
Catturò ciò che Dante visse nel veder le stelle. Ovvero, la luce che divenne non mistero soltanto, ma Grazia. La materia, la carne, il corpo vennero trasformate in metafisico sguardo, in contemplante osservazione, in metafora del tempo. Si specchiò nel suo Autoritratto del 1504 - 1506. Diede forma all'infinito non cercando luoghi. La perfezione fu il suo stile e proiettò il paradigma nelle epoche successive sino a far dire a Pietro Bembo le famose parole incise sulla sua tomba al Pantheon:
"Qui è quel Raffaello da cui, fin che visse, Madre Natura temette di essere superata e quando morì temette di morire con lui".
In piena età rinascimentale individuò ciò che sarebbe stato il Barocco e nella classicità diede voce all'arte come paradiso. Paradisiaco il suo viaggio breve esistenzialmente, ma intenso nel suo sublimare ogni forma e ogni materia.
Colore e forma fecero di lui il mistero della creazione. Il mistero nella "distribuzione" della luce. Ogni suo tratto venne abbellito con ritmo.
Maria Zambrano scrisse che:
"In Raffaello c'è la scena, ma il dramma non è umano, è religioso; ciò che li si mostra è un mistero, un mistero della Religione".
Un mistero metafisico, completamente metafisico, che va oltre la fede stessa per una provvidenziale profezia iniziatica. Non cercò ma trovò sempre. Sarebbe potuto diventare Santo, o meglio lo avrebbero potuto beatificare sino a teologizzarlo nei Cieli, ma restò terra e dalla terra creò bellezza anche dopo la morte e ci consegnò il testamento del divino, del sacro e del mito tra Atene la Madonna del cardellino, tanto cara a Gabriele D'annunzio nel suo pacificante "Notturno".
Dalla Adorazione dei Magi alla Visione della Croce una liberante attesa che ha un solo nome: venerazione della bellezza.
Nel 1568 Giorgio Vasari scrisse nelle sue "Vite de' più eccellenti pittori, scultori ed architettori":
"Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo nell'accumulare in una persona sola l'infinite ricchezze de' suoi e tutte quelle grazie e' più rari doni che in un lungo spazio di tempo suol comparire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffaelo Sanzio da Urbino".
Il sacro nella classicità del mito si intrecciano per fare un indivisibile cerchio tra sublimazione e bellezza.
di Pierfranco Bruni
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