Domenico Caiazza e il terremoto dell'Irpinia: senza rimborsi e medagliette

CASERTA - Quarant'anni dopo, al di là della linea di demarcazione che fu e resta netta, tra il prima e dopo terremoto, raccogliamo la testimonianza di Domenico Caiazza, avvocato con la passione per la Storia, quella con la maiuscola, fondatore del gruppo archeologico Trebula Balliensis, che ha promosso gli scavi nel comune di Pontelatone, in provincia di Caserta. In quel lontano e mai dimenticato 1980, Caiazza era nella Protezione civile di Pietramelara, il suo paese, e fu tra i primi a portare soccorso nelle zone dell'epicentro del sisma.

A quaranta anni di distanza dal terremoto dell'Irpinia quali sono i suoi ricordi?

«A livello personale ricordo che la scossa fu interminabile, i solai delle stanze al primo piano da piani che erano fecero una gobba, non si riusciva a stare in piedi senza appoggiarsi ad un muro. Poi andò via l'energia elettrica e rimanemmo al buio. Non ricordo di avere sentito "l'urlo" del terremoto che, invece, ho avvertito nel sisma recente che ha devastato l'Abruzzo».

Lei raggiunse l'Irpinia con la casacca della Protezione civile. Ma già esisteva la Pc a Pietramelara?

«Non ricordo la data esatta di fondazione, forse Gianni Stagliano, Vinicio Squillacioti, Gigi Masiello, che con me la fondarono, potrebbero essere più precisi, ma di certo a metà anni '70 operammo decine di volte nella prevenzione antincendi. Elaborammo e stampammo anche un apposito opuscolo».

Era già operativa allora, in quegli anni, la Protezione civile?

«In Campania non credo proprio. In provincia di Caserta credo che vi fossero squadre solo a Pietramelara e nel capoluogo».

Come si intervenne dopo il terremoto?

«Si interpellarono i volontari, si raccolsero adesioni, si misero insieme un po' di auto e il Comune ci diede il supporto di un vigile, mi pare. Ricordo che c'erano con me Pasquale Lombardo, Pietro Natale, Gianni Stagliano, Gigi Masiello ma se ricordo bene eravamo una decina. La squadra si portò in Prefettura di mattina, ma a sera era ancora tutto in alto mare, Caserta non aveva ancora ricevuto istruzioni. Decidemmo allora di partire sulla base delle notizie radiofoniche che riuscivamo ad acquisire. Uscimmo a Campagna dall'autostrada, poi raggiungemmo San Gregorio Magno a notte fonda. Lì c'erano stati 27 morti, un centinaio di feriti e oltre mille sfollati. La gente del posto aveva acceso dei fuochi e passava la notte attorno agli stessi. Uno di noi aveva le gambe intorpidite per le ore in auto inciampò e cadde presso un fuoco, urtò i ceppi e si levarono alte faville. Ci fu un involontario momento di ilarità. Un carabiniere che vegliava mi disse che non avevano notizie e collegamenti con Ricigliano, un paesino non lontano, e ci chiese di raggiungerlo. La strada alle pendici della collina era in parte franata, in parte ingombra di massi. Nel buio totale avanzavamo con molta difficoltà. Poi un macigno ci fermò. Era troppo grande per rimuoverlo. Mentre aspettavamo l'alba, dietro di noi giunse una colonna di autocarri. Era una famiglia di Bari, se ben ricordo, un padre con figli e operai, tutti volontari, avevano caricato sui camion le ruspe e gli scavatori e giungevano in soccorso.

Feci vedere gli ostacoli, in breve una ruspa cominciò a sgombrare la strada. Giungemmo così a Ricigliano, un paese vicino a Balvano, più o meno nell'epicentro. Era l'alba e faceva molto freddo. Il paese era distrutto, solo una scuola e un edificio dove c'erano un panificio e un telefono funzionante erano agibili. Era un paesino di emigranti: vi erano nonni e bambini, mancavano i giovani. Poi arrivano lì i boyscout e un giovane medico appena congedato  che si era rimesso la divisa e veniva dare una mano. Mi pare si chiamasse Minerva e che fosse di Eboli. Poi arrivò una squadra di ferrovieri manutentori volontari, credo da Bomarzo o Viterbo. Furono loro che recuperarono cavi e fanali e riportarono un po' di illuminazione trovando nelle campagne una linea ancora attiva. Solo dopo qualche giorno arrivò l'esercito. Poi camion con cibo e indumenti. Vi era grande confusione e i volontari erano più organizzati e operativi delle forze dello Stato. Noi di Pietramelara restammo cinque o sei giorni. Abbiamo dato una mano dove serviva e poi siamo tornati a casa in buon ordine e in silenzio senza rimborsi o medagliette. Ma quando è servito noi c'eravamo».

A San Gregorio Magno, quarant'anni dopo, il ricordo indelebile di quella tragedia è rimasto non solo nell'iconografia del paese, segnata dai prefabbricati e dalle macerie, ma nel tessuto urbano e nei legami interpersonali. Chi è venuto dopo lo ha sentito raccontare, chi c'era non l'ha potuto più dimenticare.

di Nadia Verdile

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