PORDENONE - La Guardia di finanza di Pordenone, con l'operazione "Via della Seta", ha scoperto una maxi frode fiscale internazionale, un'attività di riciclaggio e un traffico illecito di rifiuti per 300 milioni di euro. I finanzieri hanno tratto in arresto 5 soggetti e indagato 53 persone; sono stati disposti sequestri per 66 milioni di euro e scoperto un patto tra criminalità italiana e cinese con cui si sono trasferiti, con modalità occulte, 150 milioni di euro nella Cina Popolare.
La Gdf di Pordenone, su delega della Procura della Repubblica - Direzione distrettuale antimafia di Trieste, ha svolto una complessa attività investigativa nei confronti di un sodalizio criminoso a carattere transazionale operante nella commercializzazione, con modalità fiscalmente fraudolente, di materiali ferrosi e non (rame, ottone, alluminio) normativamente inquadrabili, ai sensi dei decreti legislativi n. 152/2006 e 21/2018, nella categoria dei “rifiuti metallici non pericolosi”.
Le investigazioni avviate nel 2018 hanno preso spunto da evidenze informative pervenute, tramite gli Organi centrali del Corpo, attinenti ad anomale movimentazioni finanziarie intercorse tra una impresa avente sede della Repubblica Ceca ed una neocostituita azienda della provincia di Pordenone - spiegano dalla Guardia di finanza -. Le successive indagini, condotte dal Nucleo di polizia economico-finanziaria, anche mediante intercettazioni (telefoniche, telematiche, ambientali), pedinamenti occulti, monitoraggi video (aree di stoccaggio, uffici e caselli autostradali) nonché captazioni informatiche, hanno consentito di ricostruire un diffuso e importante traffico di rottami metallici (di disparata origine), avvenuto nel periodo 2013 – 2021, per circa 150.000 tonnellate (pari a circa 7.000 autoarticolati) aggirando gli obblighi ambientali e di tracciatura vigenti, utilizzando fatture per operazioni inesistenti, allo scopo di:
- consentire a soggetti aziendali di vendere rottami ferrosi “a nero”, evadendo le imposte nonché per sottrarsi ai previsti obblighi documentali di monitoraggio disciplinati dalla normativa ambientale;
- permettere agli utilizzatori finali delle fatture di documentare costi mediante l’annotazione di documenti fittizi, con la relativa riduzione della base imponibile.
La struttura criminosa operava con il seguente modus operandi:
- la preventiva creazione, in Italia, di società ad hoc con funzioni di soggetti “intermediari” nel commercio di rottami metallici ovvero con la finalità di interporsi nella filiera commerciale che vede ai suoi poli le aziende originatrici/produttrici del materiale in rassegna e le acciaierie;
- l’esecuzione di fittizie operazioni di acquisto, da parte delle citate società interposte, di materiale ferroso all’estero giustificato da fatture per operazioni inesistenti, emesse da società compiacenti (della tipologia missing trading esistenti più da un punto di vista formale che sostanziale) aventi sede nella Repubblica Ceca e Slovenia. Tali acquisti intracomunitari, esistenti solo “cartolarmente”, erano finalizzati a ottenere una “copertura” documentale e contabile volta a farle apparire come rottami lecitamente acquistati da imprese aventi sede all’estero che ne attestavano falsamente la regolarità secondo i requisiti richiesti dalla normativa unionale Europea;
- il successivo utilizzo della documentazione (fiscale e ambientale) generata dalle operazioni fittizie inesistenti di cui alla precedente alinea per consentire, a terze aziende manifatturiere, di operare la vendita di scarti di lavorazione metalliche “a nero” altrimenti non perfezionabili tenuto conto che le acciaierie (end user) si individuano in soggetti economici, di rilevanti dimensioni e fatturato, del tutto refrattari a gestire acquisti di tonnellate di materiale “a nero” privo peraltro della necessaria documentazione ambientale.
In armonia con la legislazione europea, infatti, affinché i rottami metallici non siano qualificabili come “rifiuto”, il produttore deve redigere e trasmettere ad ogni cessione una "dichiarazione di conformità", al fine di consentire, in ogni momento, l'individuazione dell'origine del rottame e, dunque, la tracciabilità dello stesso. Laddove ci si trovi, come nel caso di specie, di fronte ad una cessione "in nero", la provenienza dei rottami resta ignota, gli stessi non sono tracciabili e, dunque, devono - sempre e comunque - essere considerati "rifiuti" a causa del mancato rispetto delle richiamate disposizioni e, quindi, non sono commercializzabili come rottami metallici. Per ovviare a ciò, gli indagati provvedevano a predisporre fittizie "dichiarazioni di conformità" aggirando, così, le disposizioni di legge e celando la reale origine del materiale.
Specifici approfondimenti investigativi sono stati, inoltre, rivolti ai profili finanziari delle attività in rassegna ove i pagamenti delle fatture (di acquisto e vendita) venivano sempre condotti tramite bonifici bancari, al fine di strumentalmente appalesare la loro genuinità a fronte di eventuali attività ispettive da parte dell’amministrazione finanziaria. In una prima fase investigativa, si scopriva come, il movimento di circa 150.000.000 di euro all’estero da parte dell’organizzazione a favore di società missing trader Ceche e Slovene, vedeva il contestuale ritrasferimento di siffatte disponibilità (sempre mediante sistema bancario) in Istituti di Credito ubicati nella Repubblica Popolare Cinese, nei cui bonifici venivano indicati quali causali “importazioni”, parimenti inesistenti, di acciaio e ferro in Europa dal predetto paese asiatico.
Le indagini (specie di natura tecnica) consentivano successivamente di scoprire la natura artefatta di tali operazioni nonché l’esistenza di un accordo tra i referenti:
- del sodalizio criminale italiano operante nella sopradescritta commercializzazione illecita di materiale ferroso che, avendo inviato presso istituti di credito sloveni e cechi ingenti disponibilità finanziarie per i fittizi acquisti, avevano poi la necessità di farle rimpatriare nel territorio nazionale al fine di “retrocedere” le somme agli imprenditori che avevano “pagato” fatture per le inesistenti forniture;
- delle comunità cinesi residenti in Italia che, per contro, disponevano, nel territorio nazionale, di ingenti risorse finanziarie in denaro contante, buona parte frutto di economia sommersa (attività lavorativa in nero ovvero proventi non dichiarati al fisco) nonché altre attività di tipo criminoso, da dover spostare nella Cina Popolare con evidenti difficoltà logistiche e legali correlate alla detenzione di così ingenti disponibilità detenute con liquidità contante.
Siffatta alleanza consentiva alle predette controparti (pur indipendentemente dedite alle proprie attività illegali) di raggiungere un punto di convergenza che consentiva mutualmente loro di raggiungere i propri obiettivi: il denaro inizialmente trasferito nei paesi dell’est Europa dagli italiani veniva bonificato in istituti bancari nella Repubblica Popolare Cinese e le somme ivi accreditate venivano contestualmente “compensate” con la rimissione di denaro contante (non tracciabile) consegnato in Italia dai referenti cinesi ai membri del sodalizio criminale italiano, operazioni che venivano condotte presso noti centri commerciali all’ingrosso cinesi di Padova e Milano dove il denaro veniva “passato di mano” all’interno di buste di plastica.
Detto ingegnoso sistema, permetteva pertanto di far giungere, mediante il sistema bancario internazionale, disponibilità finanziarie in Cina con modalità occulte aggirando i presidi previsti dalla normativa antiriciclaggio, in relazione sia al tracciamento delle operazioni in capo ai soggetti realmente interessati che alle difficoltà di operare presso istituti di credito con ingenti disponibilità di denaro contante.
Dall’altra parte i membri del sodalizio criminale, grazie al descritto sistema di compensazione, ottenevano proprio in Italia quella liquidità cash loro necessaria per retrocedere i pagamenti per le fatture fittizie in precedenza condotti.
L’operazione di servizio consentiva di individuare:
- l’emissione di fatture per operazioni inesistenti per complessivi euro 308.894.000;
- l’occulto trasferimento di risorse finanziarie nella Repubblica Popolare Cinese per euro 150.000.000 (originariamente create con provvista in denaro contanti nel territorio nazionale), schermate da inesistenti operazioni commerciali.
La Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Trieste, all’esito delle risultanze investigative:
- indagava per le responsabilità di rispettiva competenza, complessivamente: 58 soggetti per i reati di cui agli artt. 416, 452 quaterdecies del C.P., 8, 2 e 3 del D.Lgs. n. 74/2000 e 648 bis del C.P.; 6 persone giuridiche per art. 25 quinquiesdecies del D.Lgs. n. 231/2001; richiedeva e otteneva, dal Giudice per le Indagini Preliminari di Trieste, l’emissione: di 5 misure cautelari personali (di cui 2 provvedimenti di custodia cautelare in carcere e 3 provvedimenti di arresti domiciliari); di un provvedimento di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. per complessivi euro 66.000.000.
Secondo le prospettazioni accusatorie, accolte dal Gip, l’organizzazione criminale si è rivelata particolarmente complessa e articolata in quanto caratterizzata da una molteplicità di uffici, persone coinvolte, ruoli, mezzi utilizzati, imprese di trasporto, società italiane e straniere e sarebbe stata così appositamente modulata per consentire, attraverso la formazione, la redazione e l’utilizzo di documentazione totalmente falsa, l’illecito traffico di ingentissimi quantitativi di prodotto.
I principali promotori del consorzio criminale sono 5 uomini originari del triveneto (3 dei quali con residenza nella Confederazione elvetica) coinvolti nella gestione di 3 società filtro nel tempo utilizzate allocate nelle provincie di Venezia Pordenone e Treviso. Tra gli ulteriori soggetti indagati risultano anche i coniugi di 2 dei principali artefici dell’associazione cui sono state contestate condotte di riciclaggio connessa all’acquisto di alcuni immobili con risorse di origine delittuosa, nonché imprenditori residenti in 12 provincie utilizzatori di fatture per operazioni inesistenti.
Sono state complessivamente condotte su delega della Direzione distrettuale antimafia di Trieste, 50 perquisizioni nelle provincie di Udine, Gorizia, Treviso, Padova, Belluno, Verona, Venezia, Brescia e Como. I provvedimenti cautelari personali sono stati interamente eseguiti nei confronti degli indagati mentre sono ancora in corso le misure ablative per le quali sono state già sequestrate disponibilità liquide e beni immobili nonché n. 3 società, compresi gli spazi aziendali, ubicate nella Provincia di Treviso e Belluno a tutt’oggi dedite alla prosecuzione delle attività criminose.
L’operazione “Via della Seta” conferma, tangibilmente, l’azione che la Guardia di finanza svolge quotidianamente attraverso il monitoraggio dei flussi finanziari, che costituisce il metodo più efficace per individuare i capitali di origine illecita, prevenendo e contrastando le organizzazioni criminali che commettono gravissimi reati, anche nel settore ambientale, che “inquinano” il tessuto economico-produttivo, alterano la concorrenza del mercato e, non da ultimo, danneggiano gli imprenditori onesti e rispettosi delle regole.
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