ROMA - Ripensare ai beni culturali nella loro complessità dei modelli e dei fattori valorizzanti comporta chiaramente una nuova pianta organica che possa comprendere diverse professionalità. Si tratta di un dato peculiare per far riparare l'organizzazione culturale anche nelle sedi periferiche. Occorre ricontestualizzare il ruolo delle soprintendenze per il compito che hanno svolto e che dovrebbero sviluppare. Accanto a queste va riconsiderato il ruolo dei musei, pur nella loro autonomia, che finora, non dimentichiamolo, è stata completamente sperimentale e certamente non può più restare tale.
Così va fortificato lo snodo delle biblioteche nelle suddivisioni dei comparti, insieme agli archivi statali sia territoriali che centrali attraverso una progettualità che non può essere suddivisa per aree di competenza. Ormai non ha più senso che le strutture abbiano in molte occasioni ruoli competitivi. Un organismo culturale deve essere omogeneo. L'articolazione è necessaria ma la sintesi è significativa per non creare divisioni tra i beni culturali. È chiaro che tutto deve diventare un collante, comprese le aree archeologiche, all'interno delle geografie del territorio. Ma per avviarci verso questo "antico" modello nella innovazione bisogna fare delle distinzioni. Un fatto è la programmazione culturale. Un altro è pensare ai beni culturali come dato valorizzante.
È chiaro che la mosaicizzazione è fondamentale, ma l'asse politico deve saper guardare alla cultura con tre presupposti: 1. L'identità territoriale e la salvaguardia. 2. L'immagine, la valorizzazione e la fruizione. 3. L'innovazione sul piano investimenti, risorse, economia.
I beni culturali passano attraverso la conoscenza e l'apprendimento e proprio per questo il compito delle agenzie educative può diventare un riferimento con compiti di pedagogia della scientificità, non solo didatticità, del bene culturale. Per fare tutto questo però c'è una urgenza impellente che è quella, come dicevo, della assunzione del personale. Molte strutture dei beni culturali corrono il rischio, nel corso di un anno, di restare senza personale specializzato: dai bibliotecari agli antropologi, dagli archeologi agli storici dell'arte. Si tratta di compiere un'operazione urgente se non si vuol far chiudere strutture nazionali. Incentivare il cinema italiano e il teatro sono una chiave da non non sottovalutare ma necessita ritornare al bene culturale come espressione dei territori. Ritorniamo alla cultura della tradizione che diventa bene di un patrimonio identitario dei beni culturali stessi.
Nel corso di questi anni avremmo dovuto assumere e non trasformare le strutture o inventare nuove soprintendenze senza personale specifico. È un dato che può essere recuperato e ricontestualizzare i modelli delle istituzioni periferiche partendo, appunto, dalla prima versione del Codice dei beni culturali o dal Testo Unico dei beni culturali. Insisto sul fatto che ormai il raccordo tra cultura, come attività e programmazione, beni culturali ed educazione permanente devono raccordarsi su un piano non gestionale ma pedagogico e scientifico. Bisogna porre mano alle sedi periferiche con articolazioni più consoni al rapporto economia risorsa fruizione.
Questo, come dicevo, è soltanto un primo inciso di meditazione sul quale occorre riflettere per una nuova politica culturale. Insomma guardo con attenzione ai beni culturali, ripensandoli politicamente, con una programmazione articolata ed empatica coinvolgendo la scuola direttamente, partendo sempre da un antico presupposto che è questo: il suicidio della politica passa attraverso l'omicidio della cultura. Allora. Si faccia attenzione al rapporto tra politica e cultura.
Vanno riconsiderare le dirigenze nazionali e credo che alcune andrebbero accorpate come biblioteche e archivi e creare una dirigenza autonoma per i beni demo - etno - antropologiche. I cui direttori devono però essere espressamente espressione di figure altamente culturali a tutto tondo. Qui il discorso diventa importante. I direttori generali del ministero sono figure apicali che non possono essere indicazioni burocratiche e amministrative provenienti dall'interno del ministero. Ma devono essere figure menzionati da una carriera culturale e non burocratica, ovvero personalità esterne con un profilo fortemente culturale.
D'altronde se i direttori dei musei nazionali sono espressioni non interni al Ministero perché i direttori generali dovrebbero esserlo. Una questione aperta che il nuovo governo dovrà porsi anche sulla fiducia e responsabilità culturale più articolata possibile. Con la sola burocrazia la cultura non si gestisce più. È chiaro che all'interno delle strutture vive la macchina amministrativa ma bisogna riconsiderare tutto l'apparato del Ministero della cultura in un tempo completamente nuovo.
di Pierfranco Bruni
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