NOVARA - Tra teologia e filosofia. Dottoressa Daccò, ho letto (io, Giuseppe Rapuano) attentamente l'articolo pubblicato sul nostro giornale CinqueW News, e a sua firma, dal titolo "Cristianesimo, chiese e violenza contro le donne. Incontro con la teologa femminista Elizabeth Green". Ma da lei, che da filosofa ha un punto di vista differente, mi piacerebbe avere ulteriori sollecitazioni per i nostri lettori su alcuni punti del suo scritto, quelli che più mi hanno colpito.
"Il cristianesimo ha veicolato idee costruite su potenti stereotipi di genere, che hanno permesso la violenza sulle donne".
Certo, io ne sono convinto.
Lei che ne dice?
Sono assolutamente d’accordo con Green, quando parliamo di stereotipi di genere ci riferiamo al pensiero maschile e patriarcale, al suo dominio, il “fallologocentrismo”, quel discorso cioè, che rivendica la centralità del ruolo e del genere maschile, definito da molte pensatrici femministe, Irigaray in particolare, monocratismo del discorso patriarcale.
Il potere patriarcale si è organizzato attuando la sottomissione della genealogia femminile da parte di quella maschile. Secondo la critica del pensiero femminista la psicoanalisi è la trascrizione teorica del fallologocentrismo: nell’immaginario simbolico il superamento del complesso edipico (teoria formulata dal padre della psicoanalisi, Freud) avviene attraverso il distacco del bambino dalla madre e solo la figura del padre può garantirne il divenire sociale; la figura paterna, cioè, permette la formazione della soggettività introducendo l’individuo nel circuito di una rete di significati sociali e gli conferisce una posizione precisa in rapporto con gli altri. Il patriarcato, nella cultura occidentale, è sempre stato considerato come l’unica struttura sociale che permetteva di diventare pienamente individui poiché nel simbolico maschile la donna sarebbe soltanto un’immagine riflessa del modello di riferimento, l’uomo e il simbolico femminile è pensato come mancanza (la donna è un maschio castrato) la sua è naturalmente una posizione di inferiorità rispetto alla superiorità maschile. La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, mai l’uomo in relazione a lei: è l’inessenziale di fronte all’essenziale, così si istituisce una asimmetria tra i sessi, come già affermava Levi-Strauss “Il maschio non ha riconosciuto in lei un suo simile perché la donna non partecipava alla sua maniera di lavorare e di pensare, perché rimaneva schiava dei misteri della vita”. In questa cornice simbolica si è strutturato il paradigma patriarcale che ha alimentato il mito della “naturale” superiorità maschile contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile, l’uomo si rappresenta come il logos, la ragione, acquisisce cultura nel senso specifico di intervento umano e di controllo, superando la natura, costruisce il senso della propria identità come individuo separato dalla madre, la natura appunto, attraverso il linguaggio: la “Legge del Padre” fatta di parole che sancisce lo status e il ruolo rispettivo del maschio come superiore e della femmina come inferiore. L’ordine imposto da questa legge è l’ordine simbolico, in esso le parole e i discorsi sono simboli che rappresentano la donna e la sua sessualità come un oggetto del discorso; un’economia binaria, dunque, asimmetrica, gerarchica, fondata su una logica bipolare oppositiva che esprime un rapporto tra un soggetto e un oggetto in cui l’ordine maschile, essendo positivo, determina la negatività di quello femminile che in quanto tale è ridotto all’uniformità e alla sottomissione. Il percorso di ricerca, di comprensione e di decostruzione operato e operante in questo ambito da parte di alcune aree del pensiero occidentale ha rivelato proprio queste dinamiche attraverso cui le deviazioni storiche, politiche e sociali hanno imprigionato la donna in significati e forme che altri hanno voluto per lei.
"Il silenzio. Quest’ultimo in particolare, sottolinea la teologa, viene imposto alle donne (le chiese esortano la donna a tacere) e contribuisce a creare quella cultura dell’omertà che ammanta ogni forma di violenza contro di esse".
Vero, per me è così.
Ma il silenzio è assenza di parola?
Il silenzio non è semplicemente e solamente assenza di parola, è un potente dispositivo di comunicazione agito in diverse forme e a livelli differenti. Il silenzio attuato ha due prerogative essenziali: l’ascolto e la sottomissione. Certamente il silenzio a cui si riferisce Green esprime una forma di abuso e di violenza esercitata sulla donna non solo a livello psicologico e sociale, ma anche e più profondamente a livello ontologico: il soggetto si forma e si auto-rivela nell’espressività discorsiva, diventa un soggetto pensante relazionandosi con gli altri attraverso il linguaggio. La tradizione patriarcale ha imposto alla donna il silenzio privandola di un linguaggio autonomo, così il femminile è stato costretto a parlare di sé attraverso il linguaggio maschile, la donna parla, pensa, si parla e si pensa, non partendo da sé, ma attraverso le rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo.
Vi è una profonda connessione tra l’aspetto simbolico e materiale: l’assenza storica delle donne dalla sfera pubblica, dalla produzione del sapere e la condizione di oppressione sociale incarnano il silenzio della negazione di una soggettività e dell’ostracismo assoluto; la squalifica del simbolico femminile è coestensiva all’oppressione materiale e sociale delle donne reali. Nel linguaggio si organizzano sotto forma di codici sociali gli investimenti simbolici individuali, la soggettività e le rappresentazioni collettive che a loro volta determineranno l’immagine che ogni singolo individuo costruisce di sé e della propria esperienza. Abbattere la barriera del silenzio significa poter dare vita ad una rappresentazione autonoma e veritiera della femminilità attraverso un nuovo linguaggio che riconosca la specificità di genere mirando non all’uguaglianza verso il modello maschile, ma all’equivalenza di valore ontologico preservata dalla differenza, un linguaggio in cui le donne stesse riprodurranno le rappresentazioni del femminile nella costruzione della propria immagine la quale interagirà con i codici sociali. La donna diventa soggetto che si pensa non più costretta al silenzio di fronte alla parola. Imparare un altro modo di parlare condurrà, allora, ad un silenzio relazionale che predispone all’ascolto di un linguaggio differente.
"Permane l’idea che una donna possa cambiare l’uomo violento attraverso l’amore incondizionato e si insiste sul perdono verso colui che usa violenza"
Vero e assurdo, il mio pensiero.
Vada in profondità...
L’asimmetria di genere e l’economia binaria che esprime il rapporto di inferiorità della donna rispetto all’uomo sono profondamente radicate nella nostra cultura; i forti condizionamenti subiti hanno minato il senso e l’idea della libertà femminile. È ancora troppo recente (e in molte situazioni è ancora attualità) quel passato in cui fin dalla primissima infanzia le bambine erano vittime di un’educazione funzionale al loro sesso, cresciute in un contesto pervaso dal paradigma patriarcale in cui le donne stesse erano rese complici del sistema e acquisivano valore solo quando si modellavano secondo i sogni maschili. Così le madri insegnavano alle figlie la rassegnazione, la devozione e l’obbedienza assolute, la riconoscenza per il prestigio che prima il padre poi il marito dava loro attraverso il cognome, tutto doveva essere sopportato pur di mantenere una collocazione nella casa di un uomo, in una società gestita da uomini. La violenza era un metodo per ribadire il dominio maschile, ostentata come minaccia per qualsiasi ribellione che rappresentasse una vergogna o un insulto alla virilità, un castigo “educativo” somministrato alle donne affinché imparassero ad essere remissive, sottomesse e accondiscendenti alle richieste degli uomini, oggetti silenti capaci di “amare incondizionatamente”. Una concezione dell’amore distorta, patologica, retaggio di un condizionamento culturale atavico che ha fondato il nostro stesso ordine sociale e la cui organizzazione è stata prescritta dal sistema patriarcale. Se l’uomo è violento è colpa della donna che non lo ama incondizionatamente, se la donna “merita” la violenza deve perdonare colui che è stato “costretto” a porla in atto, la punizione diventa per la vittima l’espressione dell’attenzione maschile nei suoi confronti: “Lo ha fatto perché mi ama e io voglio essere l’oggetto del suo amore”. Si ripropone la dinamica relazionale tra un soggetto e un oggetto perché in realtà non è la donna che cambia l’uomo violento, è lei stessa che si modella al volere maschile.
"Il Gesù che costringe a riflettere gli uomini sulla propria violenza ha ancora dopo duemila anni qualcosa da dire alle chiese che portano il suo nome? La risposta della teologa è affermativa, ma richiede la consapevolezza della chiesa stessa nel riconoscere non solo la violenza sulle donne come atto da condannare, ma anche l’ammissione della propria responsabilità nell’avere contribuito a creare un mondo che la tollera".
È troppo tardi, fuori dal tempo, non c'è più un Gesù, sarebbe un Gesù impotente: la penso così.
La parola a lei...
Io credo che l’attualità della figura di Gesù risieda nel valore della sua etica al di là del suo significato religioso. Da un punto di vista laico il Gesù storico rappresenta un modello differente di maschilità: è un uomo che rinuncia al dominio tradizionale associato al divino e al maschile, dominio correlato sia al possesso che all’uso della forza; i suoi insegnamenti esortano a non riprodurre i rapporti di dominio e sottomissione tipici della società imperiale e patriarcale.
Il suo linguaggio esprime attenzione e sensibilità nei confronti dell’altro, la capacità di riconoscerne l’assoluta dignità, uno schema comunicativo nelle parole e negli atti che ricerca la relazione “con”, che si preoccupa di comprendere e ascoltare il pianto della donna, che sanziona la violenza contro la donna (per esempio nell’episodio della lapidazione dell’adultera). Gesù è un uomo differente che parla un linguaggio differente e in questo senso il suo esempio può dire qualcosa non solo alle chiese che portano il suo nome, ma a tutti coloro che sono disposti ad ascoltare e a mettersi in discussione.
"E gli uomini? Negli ultimi anni hanno maturato una maggiore consapevolezza sul fatto che il problema riguardi loro in prima persona".
Sostengo che non sia vero, che se ne freghino.
Lei che ne pensa?
Ritengo che il discorso vada affrontato ad un livello più profondo: la violenza agita nei confronti delle donne non è più quella subdola, mascherata nelle sfumature di un’educazione funzionale alla vita domestica, espressione di emarginazione e ignoranza o sintomo di una patologica sessualità, oggi è esplicita, gratuita, emerge dai profondi mutamenti avvenuti nella stratificazione sociale e nella storia civile delle società post-moderne. La violenza sulle donne è una realtà pervasiva capace di esplodere in qualunque contesto, il suo manifestarsi ha avuto inizio con l’esaurimento della cultura patriarcale e con la presa di coscienza delle donne dei condizionamenti subiti. Una libertà femminile consapevolmente espressa che ha scardinato pregiudizi e travolto l’ordine dei valori dominanti mettendo in discussione ogni teoria, linguaggio, pensiero, veicolati dal maschio.
Nel percorso di costruzione di un’identità femminile soggettiva la donna istituisce la crisi identitaria maschile, crollano le dinamiche relazionali che sostenevano l’asimmetria di genere, la supposta superiorità maschile non è più emendabile, la violenza non è più giustificabile; perché allora permane, invade, diventa virale? Le donne hanno preso la parola, sono uscite dal dominio maschile che imponeva il silenzio, creando un linguaggio differente, un parlare al femminile che l’uomo non si sforza di comprendere. Il cambiamento destabilizza, spaventa, spesso scatena reazioni di estrema violenza: nel Medioevo le streghe bruciavano sui roghi, oggi nuove pire vengono allestite per sedare la ribellione e ristabilire il più rassicurante e tradizionale rapporto asimmetrico.
di Monica Daccò
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