I versi di Umberto Saba, penetrare la metafora e il viaggio

ROMA - Il Mediterraneo come luogo e come anima. Il Mediterraneo nella memoria. Resta un sentire che si avverte nel linguaggio, nel sentimento, nel gioco fantasioso delle attese che trovano un loro essere proprio nella parola. Ci sono poeti (e c’è una poesia) che hanno tramandato un pensare mediterraneo e ci sono poeti che sono rimasti dentro le maglie di una idea di consapevolezza e il luogo e la memoria sono un incontro fatale che non solo si percepisce per un rimando di tempo ma si vive come una interiorità che diventa esperienza storica ed espressione di una malinconia. In alcune poesie di Umberto Saba (Trieste,1883 – Gorizia,1957) si avverte un raccordo che ci conduce ad una matrice profondamente radicata nello spazio della nostalgia. I versi di Saba che risalgono alla raccolta Mediterranee, datata 1947 (scritte nel 1946: sono ventisette poesie), sono un penetrare la metafora e la realtà del viaggio.

I segni indelebili nel cavo di una mano che mostra i suoi solchi

Il viaggiare per un poeta di confine o di frontiera come Saba ha sempre rappresentato un penetrare l’anima di un inquieto esistere tra gli urti della storia. E la storia è dentro il vissuto ma si tratta di una storia la cui centralità è sempre un dettato esistenziale, ovvero è l’esistere dell’uomo in un confronto con le civiltà. Queste “Mediterranee” sono le terre non della solitudine ma del rappresentare. L’ulissismo è il tracciato del viandante che diventa naufrago anche al di là dello stesso naufragio. L’ulissismo di Saba sta nel saper andare oltre le colonne d’Ercole perché è soltanto in quell’oltre che si trova l’interezza del viaggio e quindi di un’esistenza che ha saputo assorbire il travaglio di una attesa. In fondo mi pare che il viaggiare o il vagare, la partenza o il ritorno, l’indefinibile mosaico di un tempo irrefrenabile costituiscono la nostalgia del poeta. Una nostalgia che è fatta non solo di atti lirici ma di un graffiare la memoria lasciando i segni indelebili dentro il cavo di una mano che mostra tutti i suoi solchi, le sue rughe. Il viaggio è come se non conoscesse né partenze né ritorni ma un costante navigare. Così: “Nella mia giovinezza ho navigato/lungo le coste dalmate”.

Pur vuole/la Musa che da te nacque, ch’io dica/di te

Uomo di frontiera o uomo di confine. Ma il sentimento della terra smarrita (non perduta) è la frequentazione di un dolore che non conosce soste. Quali soste o quale pausa lungo la rotta di un Ulisse che affronta l’alta marea e la notte per continuare a non ritrovarsi tra le pieghe del viaggio? Infiniti sono i sogni ma infinito resta il naufragare del viandante. Il Mediterraneo è dunque una dimensione di un esistere che è un resistere al gioco – forza della morte – tempo. Il mito e le figure del mito sono sì allegoria ma sono quasi sempre un andare nel di dentro di un mondo insondabile che, comunque, c’è. Questo mare mai immenso intreccia popoli: “Pur vuole/la Musa che da te nacque, ch’io dica/di te, col buio alle porte, parole”. Grecia, Roma, Giudea. Sono un viaggio immenso nel cuore delle civiltà in un mare che immenso non è. Ancora tra le parole della poesia “Ulisse”: “Isolotti/a fior d’onda emergevano, ove raro/un uccello sostava intento a prede,/coperti d’alghe, scivolosi, al sole/belli come smeraldi. Quando l’alta/marea e la notte li annullava, vele/sottovento sbandavano più al largo,/per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno/è quella terra di nessuno. Il porto/accende ad altri i suoi lumi; me al largo/sospinse ancora il non domato spirito,/e della vita il doloroso amore”.

Vivere il viaggio come se fosse la ricchezza del niente

L’omerico senso di ritornare e il dantesco peregrinare nel cercare (e cercarsi) l’orizzonte di un oltre si lasciano ascoltare in un piano che sa di nenie. Quelle nenie antiche che hanno sapore di greco. Ma Saba è un naufrago tra il vento dell’Adriatico e le onde del Mediterraneo in un cielo di azzurri voli che trasportano nostalgie. L’infanzia che stabilisce distacchi è nostalgia: “In fondo all’Adriatico selvaggio/si apriva un porto alla tua infanzia”. Questo porto che è radice, la sua Trieste rivive con l’ansimare di un progetto nei tagli (non più ritagli) del tempo. Nella chiusa di questa poesia (si tratta della n. 2 di “Tre poesie a Linuccia” sempre da Mediterranee) si legge: “Era un piccolo porto, era una porta/aperta ai sogni”. Il porto per Saba resta un luogo nelle atmosfere del tempo perduto. Quel tempo perduto che ha ritagli, a volte, di incantesimo. La magia del sogno non è una alchimia. Il porto è certamente un luogo ma non si decifra con una precisa geografia. L’anima e il tempo come orizzonte universale possono mai avere una geografia? Si vive il porto perché è dimensione dell’esistere nel viaggio. Esistere nel viaggio è continuare ad esistere senza soste perché il viaggio, come si diceva, è l’attesa che ci permette di “sperimentare” l’oblio del tempo in un rapporto con la liturgia del sempre e del comunque. È, ancora una volta, vivere il viaggio come se fosse la ricchezza del niente. Ma Saba conosce molto bene il dolore e il sogno. Quella disarmonia che è inquieto esistere tra le pareti di cristallo che resistono all’urto dei venti nel nubifragio. Ulisse resta su una zattera a raccontare o a raccontarsi perché il silenzio del Mediterraneo si raccoglie anche nello sbattere delle onde, nel frusciare delle acque, nel rischio della solitudine che si avverte nelle notti d’altura. Ulisse – Saba ha spiegato le vele pur abitando e navigando una zattera. Una metafora che raccoglie una vita: “Morire è nulla; perderti è difficile”. Così in un navigare – naufragare viaggiando come i marinai che non smettono di ritrovarsi nel mare.

di Pierfranco Bruni

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