ROMA - Vi sto annoiando? Del resto, a che serve raccontare? Semplicemente non posso fare più niente con una gamba sola, visto che l’altra me l’ha portata via un capodoglio di strada: come il capitano Achab, per anni ho provato a inseguirlo nell’infinito mare del tribunale di Roma per ottenere giustizia.
Basta. Non posso neppure salire sulla scaletta di casa per consultare i volumi della mia biblioteca. Perché ho una biblioteca fornita, sapete? Ne vado orgoglioso. Tutta catalogata da me, modestamente. Ora i miei viaggi li faccio lì dentro, lunghi viaggi nello spazio e soprattutto nel tempo. Dalla G in poi, sono autonomo. Dalla A alla F mi ci vuole il ‘pilota’: di solito lo fa la mia compagna. Una volta che lei non c’era, ho chiesto a Naìma, la governante somala, di salire sulla scala per me.
Dovete sapere che Naìma è una sfolgorante bellezza di ottanta-ottantacinque chili, per lo più concentrati sotto il punto vita, precisamente sul fondoschiena. Avvolta nelle sgargianti vesti tradizionali la vedo innalzarsi leggera - leggerissima, eterea, gassosa - sulla scala. Arrivata in cima, si volta e, con una mossa graziosa, giungendo le mani all’altezza del petto, sorridendo, mi fa:
“Allora professore, che libro vuoi?”
Le dico il nome dell’autore e il titolo e lei, di nuovo col viso contro lo scaffale:
“Che colore, professore?”
Come, “che colore?”
Non sa leggere, chi se l’immaginava? Frequenta il terzo anno della scuola tecnico-commerciale Amedeo d’Aosta Duca degli Abruzzi…
“Ma come fai a essere al terzo anno?”
Ride di nuovo, di quella sua risata luminosa, corale, come se in lei ci fosse la Somalia intera.
“Sto al buio, eh, professore? Piano piano ce la faccio”.
“A fare che? Se non sai leggere... come te la cavi?
Non sapevo se ero irritato o divertito. Certo, l’indignazione per la scuola serale Duca degli Abruzzi mi cresceva dentro di minuto in minuto, ero già pronto a scrivere una letteraccia al Provveditorato per denunciare come ci si approfittasse di una extracomunitaria facendole pagare l’iscrizione, le tasse, i libri di testo di cui poteva consultare solo i colori.
“Lascia stare, professore, non importa. Io lì mi diverto, partecipo, si dice così?”
“E devi andare all’istituto Duca degli Abruzzi per partecipare?”
Scende dalla scala saltellando, afferra il piumino per spolverare, risale su, mi guarda seria:
“Sai, professore, la scuola sta vicino alla stazione Termini e io ho parenti là e c’è anche il nostro corriere per spedire i soldi ai miei fratelli. Poi, il Duca degli Abruzzi è stato buono con noi, è morto nel nostro deserto, era una buona persona. Non posso andare in un’altra scuola”.
Ha ragione lei, dopotutto. Paga l’iscrizione per partecipare e per ritrovare in un paese straniero inaspettate assonanze col proprio paese. Anche solo un nome evocativo del tempo dei suoi nonni.
di Pia Di Marco
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