Periferia di Roma più somala della Somalia, col tempo sospeso fra i ruderi

ROMA - Un messaggio whatsapp: apro lo smartphone, è Naìma, mi ha inviato un video, clicco sulla freccia, il video si apre con un canto africano - gran rimescolamento di vitalità e fatalità. Una donna stringe un fascio di paglia secca, senza manico, spazza la terra arida, polverosa intorno alla capanna, il velo candido le chiude il capo, le copre le spalle, ricade in mille pieghe sopra il vestito sgargiante: il rosso e l’arancio esplodono nell’aria pallida, rarefatta immobile.

I gesti brevi, ripetuti, si fanno più lenti, accurati, a mano a mano che la donna s’avvicina al tappeto dove sono deposti una teiera, un mortaio, una grande cesta conica, piccoli cammelli di legno, borsellini di pelle cuciti a mano. Dal retro della capanna appare un ragazzo alto, magrissimo, vestito di bianco: la donna chiude intorno a lui la danza delle cure domestiche, prende la teiera, riempie il boccale che l’ospite le porge; questo si toglie i sandali, si siede sul tappeto, sorride  con la grazia assorta delle creature del deserto. Anche la donna si siede, afferra la cesta a forma di cono, la muove ritmicamente: è una culla. Nessun vagito si sente, solo il canto e il vento.

Un altro whatsapp di Naìma, un vocale: “Stella, questa è Roma: Roma, Roma, sopra la Prenestina, sopra Centocelle”.

Roma. Credevo fosse un villaggio della Somalia. La città si adatta, si trasforma nelle mani creatrici di una donna con la sua corta scopa di paglia: i campi di Centocelle prendono il colore del deserto e il cielo sopra la periferia si fa sbiadito e vibrante di calura africana. Tutto diventa uguale a quel che si conosce già, al paesaggio dell’infanzia, delle vita, della gente: si corrono rischi inenarrabili per arrivare alle coste dell’Europa, in un nuovo mondo incomprensibile, di cui si afferrano brandelli e balzelli da aggirare, passaporti con il nome che non è il proprio, ma un nome vale l’altro: il nome vero appartiene alle radici, alla terra, è un nome collettivo, un detto che forma l’anima per sempre. Ho conosciuto un ragazzo che si chiamava “Perdonare non è Dimenticare”, lo ripeteva nella sua lingua e negli uffici comunali suonava come un cognome. E che si fa di questi nomi pescati nella lotteria dell’Europa come nel cappello a cilindro di un mago da circo, dei documenti tutti ghirigori, timbri, nazionalità, altezza e colore degli occhi? Che importa. La faccia stralunata in una fototessera è come quella dei nostri vecchi delle campagne di cent’anni fa, non abituati a farsi fotografare: gli occhi di un lupo in gabbia.

Ci si adatta a logiche incomprensibili, si manipolano regole e carte d’ufficio in attese estenuanti, dormendo fuori dalle questure, aspettando il permesso di soggiorno… ma di tutto questo non c’è traccia in quella donna che ‘rigoverna’ la terra intorno alla capanna, offre il thè e culla il suo bambino, nella periferia di Roma più somala della Somalia, col tempo sospeso fra la maestosità antica dei ruderi e gli spazi aperti a ogni definizione.

di Pia Di Marco

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