Letteratura italiana con due modelli di approccio a Nietzsche, costruttori della fedeltà del pensiero e costruttori della deviazione

ROMA - A 96 anni dalla scomparsa Friedrich Nietzsche. Il tragico e il melanconico tra filosofia e letteratura. C’è una sottile venatura che percorre gran parte della letteratura del Novecentismo italiano, la quale accentua sia il desiderio di confrontarsi con l’opera (ma anche con il personaggio in sé) di Friedrich Nietzsche (nato nel 1844 e morto nel 1900) sia il desiderio di incarnare i processi esistenziali e lirico – letterari di Nietzsche e decodificarli nella problematica e nella scrittura sia il bisogno di capire assorbendo però quel gioco estetico dell’essere e della parola nel dialogo scontro tra il dionisiaco e l’apollineo ma anche, il più delle volte, si avverte la necessità di catturare l’esplosione del superomismo e renderlo un concetto “a priori” nel contesto dei processi narrativi e poetici che hanno caratterizzato il Novecento.

La visione del Superuomo (ed è quella, in fondo, che in letteratura corrisponde con l’acutezza della “volontà di potenza” nella raffigurazione o nel disegno del personaggio – uomo, il caso di D’Annunzio, in tal senso, diventa emblematico, in un rapporto con la dimensione indefinibile e inconoscibile del destino) intreccia sia il fatto esistenziale sia il dato creativo. Nella creazione (e quindi nell’artista come esploratore dell’animo del mondo ma soprattutto come creatore “plastico” delle storie che diventano avventura e destino e plasmatore delle fantasie nel superamento delle realtà) l’arte è una “volontà” che si richiama alla potenza dell’essere e alla bellezza dell’espressione attraverso, appunto, l’ebbrezza e il sogno che costituiscono il “percorso” che ci conduce ai linguaggi.

Ebbene nella letteratura italiana del Novecento questi intrecci si verificano e vivono con una particolare naturalezza. Indubbiamente Gabriele D’Annunzio è un riferimento centrale in quell’assorbimento nicciano che ha contraddistinto tutta una visione della letteratura e in modo più sostanziale del rapporto tra vita e letteratura. C’è da dire, comunque, che i temi della poetica nicciana (da quello della maschera a quello dei processi simbolici, da quello della morte a quello del mito) sono tutti dentro quella letteratura del viaggio o della metafora del ritorno che si caratterizza grazie ad un alcuni poeti e scrittori che hanno segnato un profilo importante nel panorama storico della letteratura. Anche quando Nietzsche non viene riconosciuto ufficialmente i suoi segni e la sua voce sono inconfondibili e rimangono tali perché la sua incisione è così profonda che diventa, in molti casi, letterariamente destabilizzante per alcuni autori.

Mi riferisco in questo caso preciso ad Alberto Moravia. Allo scrittore che ha mutuato il concetto decadente di nausea (ma anche di noia) non da Sartre ma (direi certamente che entrambi hanno attinto allo stesso bagaglio esistenziale – letterario per poi allontanarsi) proprio da Nietzsche. E’ Nietzsche che in una limpida espressione cesella: “La nausea per la vita che continua è sentita come uno strumento di creazione, sia propria della santità che dell’arte. L’orrido o l’assurdo sono esaltanti, se lo sono solo apparentemente. La potenza dionisiaca dell’incantamento è tale anche al culmine di questa visione del mondo: tutto il reale si dissolve in apparenza e dietro di essa si dà a conoscere la natura unitaria del volere, tutto nascosto nella magnificenza del sapere e del vero e nel loro abbagliante splendore”.

Si mette in circolo nel tema della nausea il tema del tragico in un incrocio con quello della maschera in un processo letterario ed esistenziale che pone all’attenzione lo sviluppo problematico della cultura decadente. E Moravia ha assorbito il tema della decadenza ma lo ha sfilacciato riducendolo a gomitolo ideologico quanto invece proprio per la sua problematicità ha un senso e un orizzonte profondamente tragico – esistenziale – letterario. Simbolismo e decadentismo sono le due chiavi di lettura grazie alle quali si può interpretare il nodo letteratura – vita. Decadentismo e realismo, invece, non interpretano il rapporto esistenza – espressione letteraria ma riducono il discorso su un piano meramente pratico – ideologico imponendo addirittura alla letteratura quella prassi non della conoscenza ma della esplicazione della ragione. Ecco perché soprattutto nella letteratura italiana si sono verificati due modelli di approccio a Nietzsche. Da una parte i costruttori della fedeltà del pensiero nicciano (da D’Annunzio a Cardarelli, da Saba a Savinio, da Michestadter a Svevo, da Ungaretti a Pavese e poi Gozzano, Campana, Onofri, Bomtempelli) dall’altra parte i costruttori della deviazione, i quali sono tanti e navigano, consapevolmente e inconsapevolmente, nella marea del fluire nicciano che non si arresta e crea ancora di più onde lunghe sino a poeti e scrittori delle ultime generazioni. Nel senso del tragico della letteratura c’è, indubbiamente, il superamento del quotidiano ma c’è altresì il recupero, grazie al concetto di volontà e di potenza (scissi dall’espressione unica: volontà di potenza), di una identità mitica che si definisce nella dimensione simbolica e onirica dell’antico ritorno.

Gabriele D’Annunzio non solo ha “sceneggiato” quel concetto di Superuomo, nella sua visione sublime e anche filosofica, ma si è autodefinito in Nietzsche nella riscoperta del grecismo grazie alla tragedia come azione vissuta dei personaggi e nella costante riesplorazione del bello come pagina di un estetismo i cui due estremi coincidono: sogno ed ebbrezza. Nietzsche divenne la coordinata estetico – letteraria di quel processo  mitico – poietico e anche allegorico che congiunse il tempo del tragico con la contemplazione della morte. La scoperta del Superuomo per D’Annunzio non fu la risoluzione delle sue contraddizioni riguardanti l’estetismo come scrive Giulio Ferroni. Fu, invece, la dichiarazione di una affermazione di poetica dell’estetismo che si risolse nella definizione di una valenza mitica il cui raccordo lo si trova nel sentimento del destino. Concezione dell’uomo nuovo ma anche concezione di un linguaggio che andava oltre gli schemi tardo – ottocenteschi. Già di per sé la poetica del simbolo dentro gli archetipi che si rivelano nel linguaggio rappresenta un superamento di una staticità della parola e della forma che trova la sua “evoluzione” proprio nell’uomo nuovo o nel Superuomo che è una richiesta non ideologica ma estetica. Soprattutto in letteratura non si può parlare di “deformazione” del pensiero nicciano. Soprattutto se la visione estetica resta completamente legata alla rappresentazione (si potrebbe dire alla teatralità) delle componenti mitiche che hanno un loro sbocco nel simbolo. In fondo il senso del tragico in D’Annunzio non è altro che rivelare i destini dell’apollineo e del dionisiaco nella voce di Zarathustra, ovvero dando voce a Zarathustra.

In realtà in D’Annunzio c’è la sintesi nicciana. Una sintesi raccolta nei valori dell’estetismo e del tragico espressa in piena autonomia con un linguaggio che rappresenta il linguaggio del Novecento. O meglio si tratta di un linguaggio di rottura rispetto ai canoni ottocenteschi. E in questa operazione D’Annunzio è stato favorito dalla conoscenza anche espressiva di Nietzsche nonostante il lavorio delle traduzioni. Ma Nietzsche c’è con la supremazia del concetto uomo, con l’esuberanza del “trionfo della morte” e la pavidità del mediocrismo, con la presenza dei miti pagani, con l’accostarsi alle metamorfosi tra personaggi, con le rivelazioni, con le divinità sensuali e con tutto quel mondo che esploderà nella incomunicabilità di un secolo che vivrà la sua potenza, la sua tragedia e la sua decadenza. Trionfo della morte di D’Annunzio del 1894 e poi Le vergini delle rocce dell’anno successivo e poi Canto novo del 1896 e ancora La città morta del 1898 per culminare ne Il Fuoco del 1900 (con la presenza di Elettra nella quale si ascolta proprio la canzone in morte di Nietzsche dal titolo: “Per la morte di un distruttore”) rappresentano un disegno inequivocabile e un processo estetico letterario che si congiunge con un processo onirico – esistenziale. D’Annunzio scrittore e poeta era il D’Annunzio personaggio che leggeva in Nietzsche il destino non solo di un progetto letterario ma il destino di un’epoca come egli l’aveva rappresentata e costruita nei suoi scritti. Sottolinea Lea Ritter Santini in riferimento alla problematica di questo processo: “Negli ultimi anni del secolo in cui Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse rappresentavano la loro avventura erotica ed estetica, la modernità era la non - conformità al proprio tempo, il fascino dell’inattuale, Das UnzeitgemaBe secondo Nietzsche, la caratteristica di un’epoca in cui la riscoperta conservatrice mascherava l’inquietudine del nuovo. Nella non – conformità al proprio tempo, nel disaccordo storico con la realtà immaginata, si nasconde però l’idea del progresso che è celebrata nella identificazione con la storia e con gli stili del passato”.

Il Fuoco è, indubbiamente, un romanzo manifesto, nel quale l’identificazione tra artista – personaggio e superuomo si interiorizza e si proietta nel complesso iter narrante. Si comprende bene come la letteratura è sempre una proiezione di un insieme di caratterizzazioni esistenziali che trovano però proprio nella pagina l’immaginario simbolico. Se Il Fuoco costituisce questo “assemblaggio” onirico – tragico di derivazione nicciana. La città morta restituisce alla letteratura una grecità che Nietzsche aveva ricomposto rileggendo il mito tragico. D’Annunzio aveva fatto suo questo concetto di Nietzsche: “Il mito tragico, in quanto appartiene in genere all’arte, partecipa inoltre pienamente a questo fine metafisico di trasfigurazione che ha l’arte in generale”.

D’altronde i Ditirambi di Dioniso sono una partecipazione tra poesia e mito che si racconterà in molta poesia del Novecento: dalla linea lirica ellenica alla meditazione sull’influenza del grecismo poetico nella letteratura della traduzione. Il Simbolismo stesso si caratterizza nel tragico e nell’onirico. E questo non solo in Italia. Ma Nietzsche è un “costruttore” (se si vuole, come recita D’Annunzio, un distruttore di schemi e di logiche precostituite) di intrecci e di costanti ritorni che lo rendono reale riferimento nel contesto del Novecento. Ma è anche un costruttore di recite. La maschera di cui parla Nietzsche non è un emblema fittizio. E’ invece la simbologia di un paradigma. Si pensi ancora a D’Annunzio. Ma si pensi a Pirandello con il quale si dovrebbe aprire tutto un discorso alla luce di verifiche letterarie ben approfondite. Si pensi a Thomas Mann il cui rapporto tra questi, Nietzsche, D’Annunzio e Wagner è uno dei capitoli più affascinanti di quella letteratura tra tragedia e decadenza che “serpeggia” nel pensare letterario del secolo del Novecentismo.

Il rapporto spirito e arte è fondamentale. Ha scritto bene Enrico De Angelis nell’affermare che: “Il Mann della Morte a venezia resta fedele al Nietzsche del Geburt der Tragodie (La nascita della tragedia). I temi del sogno meridiano e quelli del compito dello scrittore avente rapporto sia con l’apollineo sia col dionisiaco vanno capiti in questo contesto per quel che è della loro linea filosofica. 

E in rapporto col simbolismo per quel che è della loro funzione narrativa”. Un tracciato sul quale si incontrano non solo i temi di una discussione letteraria ma vi sono elementi che hanno una loro rilevanza sul piano del dialogo, appunto, tra lettura estetica, dei testi, appartenenza ad uno ereditarismo tragico – decadente e prevalenza dei sostrati mitico – simbolici. Su questa linea ci sono stati sviluppi nella letteratura italiana. Guido Gozzano si era invaghito di Nietzsche e leggeva con la passione del crepuscolare il tragico che si impossessava del quotidiano. In Ditirambi di Dioniso: “Oh, non piangete, prego,/teneri cuori”.

E’ come se si rivolgesse a quei poeti della morte annunciata. Italo Svevo si confrontò freneticamente con Nietzsche ma cercò di leggerlo contrapponendo la sua visione a quella esuberante che ne faceva D’Annunzio. Ma ci sono segni che percorrono la sua scrittura. La tragedia di Carlo Michelstaedter è una mobilitazione esistenziale tra Schopenhauer, Nietzsche e Leopardi. Così pure quella di Dino Campana i cui Canti orfici hanno un sottotitolo che ha un richiamo certo. Ovvero: “La tragedia dell’ultimo Germano in Italia”. Si avverte l’incontro tra due mondi tragici: quello nordico e quello solare e mediterraneo, quello di Campana e quello di Nietzsche. Di Alberto Savinio Giulio Ferroni afferma: “…si ricollega direttamente, dandone una versione tutta ‘leggera’, ironica, mediterranea, alla critica della metafisica di Nietzsche, uno dei suoi autori prediletti”. C’è poi una linea poetica che va da Umberto Saba ad Andrea Zanzotto che considera Nietzsche un vero proprio “nume tutelare” (il caso appunto di Saba).

Gran parte degli storici della letteratura parlano di Saba come il poeta formatosi alle scuole di Nietzsche e Freud. Cesare Luperini su Saba. “Come in Nietzsche, anche in Saba la parola ‘chiarezza’ vuole essere sempre coniugata con la parola ‘profondità’”. Gianfranco Contini ha parlato di un Saba che ha avuto, grazie a Nietzsche, una “folgorazione aforistica”. Per Giovanni Papini il libro su Zarathustra viene considerato come “una paligenesi definitiva”. Così anche per Scipio Slataper, mentre Sibilla Aleramo vedeva in Nietzsche una “poesia nuova” e in Clemente Rebora possono registrarsi delle vere influenze stilistiche e culturali. Eugenio Montale nei suoi saggi sulla poesia lo ha intrecciato in molte analisi e meditazioni. Su queste tendenze si inserisce anche il Futurismo con i suoi poeti e soprattutto con la rappresentazione delle forme e delle immagini che si danno al concetto di Superuomo e di Volontà e Potenza. Un certo legame, proprio sulla scorta della tendenza futurista, esiste tra Giuseppe Ungaretti e Nietzsche. Un legame giocato sia sul piano letterario – metaforico che su quello esistenziale. Nietzsche era uno degli autori più letti da Ungaretti e lo leggeva, lo afferma lo stesso poeta, “sin dai banchi della scuola” ma il legame va oltre ed assume una caratura chiaramente culturale. Ungaretti dirà: “Devo riconoscerlo c’è uno stimolo eruttivo, non so quali ingiunzioni alla rivolta, all’anarchia sempre in me”. E ancora Ungaretti: “Solo più tardi arriverò a sentire in tutta la sua grandezza e la sua segreta potenza quell’uomo precursore, in un certo senso, che fu Nietzsche”. 

Un precursore dunque. E Ungaretti aveva ragione.

Ma ci sono due poeti (uno è anche scrittore) che hanno studiato e poi tradotto, nei loro scritti, lezioni e stimoli di un Nietzsche costruttore di dimensioni poetiche sempre sul filo della tragicità che ha intrappolato il quotidiano e la memoria: il reale e il simbolico nella metafora unica del sublime. Mi riferisco a Cesare Pavese e a Vincenzo Cardarelli. In entrambi, comunque, c’è il passo di D’Annunzio. Ecco, si ritorna spesso a D’Annunzio. D’Annunzio, in fondo, è stato quello che ha introdotto Nietzsche nel contesto letterario di cui si parla. E su questo non c’è alcun dubbio.

Pavese in più parti del suo Il mestiere di vivere cita Nietzsche. Ma non sono citazioni di passaggio. 

Sono un vero e proprio assorbimento. La poetica del mito di Pavese trova nella lettura nicciana una interpretazione importante e un riferimento chiarificatore. D’altronde gli autori con i quali Pavese impasta un “ragionamento” sulla cultura classica, attraverso appunto la lettura del mito, sono una “derivazione” nicciana. D’Annunzio e poi Mann in particolare. Grazie a questi due scrittori e a Nietzsche c’è quell’interpretazione simbolico – onirica che porterà Pavese a scrivere Dialoghi con Leucò. Gli stessi concetti di “selvaggio”, di cultura popolare, di mito sono un radicamento che ha radici il cui legame è nel dionisiaco e nell’appolineo senso del tragico. Questo legame è alla base della poetica pavesiana. Nel suo Diario, alla data del 10 luglio 1947, si legge: “L’arte del Novecento batte tutta sul selvaggio. Prima come argomenti (Kipling, D’Annunzio ecc.), poi come forma (joyce, Picasso ecc.). Leopardi con le illusioni poetiche giovanili ha vagheggiato questo selvaggio, come forma psicologica.

Anderson, a modo suo, ha toccato questo selvaggio, nella naturalità della vita del Centro – ovest. Tutto ciò che ti ha colpito in modo creativo nelle letture, sapeva di questo. (Nietzsche col suo Dioniso…)”.

C’è da precisare che Pavese aveva letto e studiato attentamente alcune opere di Nietzsche. Le aveva assorbite e fatte sue per quello studio comparato tra letteratura e mito al quale aveva dedicato molti suoi scritti. Conosceva bene Così parlò Zarathustra, La Volontà di potenza (letta nella edizione del 1939), aveva cesellato con attenzione Ecce homo. C’è ancora da ricordare che nel periodo di confino scontato in Calabria Pavese, in una lettera scritta alla sorella e datata 12 novembre 1935, aveva chiesto alla sorella le opere di Nietzsche in italiano tranne Così parlò Zarathustra. Ma al di là di questa nota Nietzsche in Pavese è abbastanza presente per quella concezione del mito e del destino che restavano centrale nello scrittore italiano. In Paesi tuoi si risentono gli echi sia di D’Annunzio che di Nietzsche. Annota Nietzsche: “Le feste dionisiache non saldano soltanto il legame tra uomo e uomo, conciliano anche l’uomo con la natura. La terra offre spontaneamente i suoi doni, i più selvaggi animali si avvicinano con fare pacifico”. E’ emblematico questo passo di Nietzsche che ritroviamo recuperato integralmente in Pavese: “quel che è stato una volta dev’essere eternamente…”. In queste sottolineature si ascolta il Pavese della rilettura del simbolo e della terra. 

Tutta la affabulazione del mistero e del fascino mitico è qui riportata e Pavese vive in Nietzsche, attraverso i suoi racconti e i suoi romanzi, un viaggio in quella letteratura del ritorno che è una dichiarazione di consapevolezza di un destino. Tutta la formazione mitico – classica di Pavese passa dentro i singulti nicciani.

Un approccio diverso, forse più teorico, è quello di Cardarelli. E’ come se tra Cardarelli e Nietzsche ci fosse un conto in sospeso ma l’ebbrezza e il sogno costituiscono l’anima di un inizio e di un prosieguo poetico quasi indefinibile e intrecciato nell’alveo del mistero. C’è una visione della vita che parte dall’infallibilità del superomismo per poi congedarsi negli scritti che Cardarelli chiama italiani. Anche in Cardarelli, come si diceva, la presenza di D’Annunzio si fa sentire. Ma al di là di questo Cardarelli imposta il suo rapporto con Nietzsche in riferimento allo stile. “Lo stile di Nietzsche”. E’ appunto il titolo di un saggetto pubblicato in Solitario in Arcadia. Qui si nota la tipologia del rapporto. Cardarelli non ha veli. Scrive ciò che gli aggrada di Nietzsche e ciò che invece trova deleterio. Proprio per questo la sua riflessione si basa sullo stile. Mette in evidenza l’ebbrezza della parola, la ricercatezza del linguaggio, i toni. Cioè si sofferma sullo stile recuperandone i tratti della sua fantasia. Così Cardarelli: “A definire lo stile di Nietzsche non ci sono immagini di corruzione e disfacimento che bastino. Intendo corruzione e disfacimento di idee, di concetti, non di gusto; eccetto il Nietzsche della prima maniera, per me quasi illeggibile. Ed è al Nietzsche migliore, al Nietzsche italiano e ligure, che io penso come ad un crepuscolo brumoso nelle cui luci e ombre passeggere e caduche tutto si sprofonda e viene inghiottito. Si potrebbe anche paragonare lo stile di quest’ultimo Nietzsche a certi fiori che sembrano il prodotto d’una decomposizione. Vivono sull’acque morte e il loro sbocciare è quasi un marcire”.

Una versione critica sulla quale Cardarelli ragiona impostando la sua analisi in termini stilistici ma anche tirando nel gioco della struttura analitica le forme. Da questo punto di vista Cardarelli stabilisce, al di là della funzione che Nietzsche ha avuto nei suoi scritti poetici, un confronto serrato e dialettico. Nietzsche è ben presente in Prologhi che è del 1916. Un Nietzsche lirico. Un Cardarelli che riesce a mettere insieme il filosofo con Baudelaire come precisa anche Eugenio Montale. Ciò dimostra come la presenza, ancora una volta, di Nietzsche nella letteratura italiana si imposta su alcuni canoni anche di rigore analitico.

C’è, comunque, un approccio creativo – fantastico che spazia nella testimonianza dei contenuti (qui si potrebbe indicare una linea D’Annunzio – Pavese) e c’è un approccio le cui dimensioni espressive – stilistiche dominano (ma la questione del rapporto mito – tragedia – decadenza vengono sfiorate soltanto come esempi) sullo scenario delle problematiche oniriche (il caso di Cardarelli anche se Cardarelli, in fondo, intreccia le due versioni).

Resta il fatto che Nietzsche è una personalità vitale nel quadro di una letteratura italiana che, nonostante tutto, non è una letteratura realista, ma profondamente simbolica ed è dominata da quella metafora del ritorno che trova proprio nel mito la sua ragione d’essere. Certo, è D’Annunzio che scopre Nietzsche. Lo aveva sottolineato Jean de Nèthy in un articolo apparso nell’aprile del 1892 sulla “Revue Blache”. Lo scopre e lo proietta nella letteratura del Novecento. Il fatto è che questa letteratura (e qui sta anche la grandezza di D’Annunzio) non si confronterà soltanto con Nietzsche ma confrontandosi con Nietzsche si confronterà con D’Annunzio e confrontandosi con D’Annunzio (perché molto deve a D’Annunzio, diciamolo francamente) si confronterà con Nietzsche certamente ma soprattutto con quel senso tragico che Nietzsche si porterà dietro e dentro i suoi scritti. Suggestiva resta il finale delle pagine dedicate (a mò di prefazione) a Francesco Paolo Michetti in Trionfo della morte: “Noi tendiamo l’orecchio  alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca; e prepariamo nell’arte con sicura fede l’avvento dell’Uebermensch, del Superuomo”. Da qui quel frammento dei Ditirambi di Dioniso che dice: “Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti”.

Una letteratura che è un paesaggio colorato sull’arcobaleno della tragedia greca e che recita un personaggio che è altro rispetto al quotidiano personaggio del realismo. Ma la letteratura stessa è altra se alla distruzione del mito subentra la concezione di un uomo storico. L’uomo è personaggio e deve restare tale in una letteratura che conosce la tragedia e conosce il sogno e l’ebbrezza che dà il mito. 

D’altronde Nietzsche: “Quel tramonto della tragedia fu insieme il tramonto del mito”. La metafora che corre lungo La città morta di D’Annunzio è una testimonianza di valore letterario – estetico ma anche esistenziale. Ma Zarathustra stesso è la metafora di una letteratura che ha ancora bisogno di ritrovarsi negli orizzonti dell’apollineo e nel senso del dionisiaco.

di Pierfranco Bruni

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