Leonardo Sciascia con i suoi racconti reagisce a un conformismo dilagante, che è nella storia di questa Italia
ROMA - La realtà gioca costantemente sul filo del sospetto. I fatti, la cronaca, gli ambienti, i paesaggi stessi in Leonardo Sciascia sono sospesi nel di dentro di una attesa che coinvolge quotidianità e mistero. nella vita c’è sempre il mistero. ma anche nella storia. alcuni fatti che Sciascia storicizza vivono nel mistero-enigma perché non si sa mai la verità o perché la verità è sempre un’altra cosa diversa da quella che si posa pensare.
E Sciascia racconta non solo il suo tempo. I personaggi che si muovono nelle pagine diventano protagonista, ma anche testimoni. Testimoni di sé stessi, ma anche testimoni che raccolgono le testimonianze di un’epoca.
Sciascia nasce a Recalmuto nel 1921. Nei suoi lavori la Sicilia è sempre presente. In questo caso non vi compare una Sicilia dalle immagini romantiche o una Sicilia romanzata. La Sicilia è sì un emblema che rincorre il sentimento, ma è anche soprattutto la coscienza dello scrittore. Ecco, dunque, la coscienza pensante. La Sicilia come meridionalità e mediterraneità, ma anche la Sicilia come appartenenza ad una terra, a un valore, ad una ereditarietà. Ma, ancora di più, la Sicilia come destino.
Prevale su questo tracciato il documento certamente, ma è un documento freddo, lontano dal cuore dello scrittore, o un documento bloccato sulla cronaca. Ci sono i personaggi e i personaggi rivitalizzano la cronaca stessa rendendola partecipata e partecipativa. Il racconto si muove all’interno della cronaca.
Nel 1950 pubblica “Favole della dittatura”. Un libro incerto privo di slancio e fragile. Così la sua raccolta di poesie di due anni dopo dal titolo “Sicilia, il suo cuore”. Certo. La Sicilia è al centro di queste prime avventure letterarie, ma la stessa proiezione letteraria e completamente fragile. Nel 1956 pubblica “Le parrocchie di Regalpetra”. Un libro nel quale l’inchiesta si apre a ventaglio su una scrittura viva e intensa. Con questo libro Sciascia sottolinea già la sua avventura di scrittore e fa una ipoteca su ciò che scriverà in futuro.
Nel 1958 escono i racconti dal titolo “Gli zii di Sicilia”. In questi racconti si respira un’atmosfera da cronaca. È uno spaccato storico ben preciso. Garibaldi, la Spagna, il Fascismo, il 1943 e la morte di Stalin. Attraverso questi passaggi Sciascia disegna un quadro nel quale le tinte e i chiaroscuri sembrano avere una impostazione ideologica ma, alla fine, ci si accorge che ciò che resta è soltanto una angoscia di fondo. d’altronde è così in quasi tutti i suoi libri. In Sciascia c’è una ironia-allegoria, ma c’è soprattutto la realtà che si raccoglie ora intorno al personaggio ora intorno al racconto stesso.
Ma accanto all’ironia si affianca la denuncia. In una intervista apparsa sul supplemento de “la Repubblica” del ’28 ottobre 1989 alla domanda: Ad attrarla maggiormente è la soluzione dell’enigma o il mantenimento del mistero”? Sciascia rispondeva: “Il mantenimento del mistero: che non ha mai soluzione anche quando sembra trovarla. Il “giallo” presuppone l’esistenza di Dio. E l’esistenza di Dio… ma fermiamoci qui”. Il titolo dell’intervista: “Il mistero, questo nostro pane quotidiano”. È firmata da Benedetta Craveri.
Ecco. I suoi libri si muovono proprio intorno a questo mistero. un mistero che non chiede di essere ascoltato dalla ragione perché resta sempre avvolto nella dimensione del sospetto e dell’attesa. I fatti si raccontano, vengono raccontati, possono restare tali ma subentra quasi sempre un’altra entità: l’impossibilità di afferrare il sogno. Si pensi a “Candido”. Si pensi a “Il cavaliere e la morte”. Ma proseguiamo con ordine. Il 1961 pubblica “Il giorno della civetta”. È un racconto che lo fa conoscere al grande pubblico. È una storia di mafia. C’è un delitto iniziale che richiama altre simili situazioni di sangue e di omertà. C’è naturalmente l’inchiesta. È affidata a un capitano del nord. Si creano diversi e complicati intrecci ma alla fine non si approda a nulla. La mafia supera ogni sbarramento. C’è, come sempre, di mezzo la politica. Ma l’atmosfera che si crea è certamente una atmosfera di attesa. È anche un racconto attraversato dal sentimento. “Il Consiglio d’Egitto” è del 1963. Si tratta di un romanzo storico il cui ambiente riflette la Palermo del vicereame di Caracciolo. Il pessimismo di Sciascia affiora con intelligenza e sobrietà. I fatti hanno una loro drammatizzazione e si consumano all’interno di un incrocio che vede protagonista la pietà. Sullo stesso tracciato si incontrano libri come “L’onorevole” del 1964, “Morte dell’inquisitore” del 1964, “Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.” del 1970. In quest’ultimo scritto (si tratta di un dramma) c’è una metafora graffiante. C’è la rievocazione di un episodio avvenuto tra Stato e Chiesa nel 1700. Ma la metafora o l’allegoria ci riporta alla Praga devastata e occupata dai carri armati sovietici durante la primavera del 1968. È una allusione interessante con la quale Sciascia mette continuamente in discussione il marxismo condannandolo e mostrando (questo dramma è un esempio ma non unico) il vero volto del comunismo.
Verso un altro versante vanno i libri “A ciascuno il suo” del 1966, “Il contesto” del 1971, “I pugnalatori” del 1976. Il giallo di Sciascia è un giallo intraprendente. È un giallo che riserva fino all’ultimo sempre nuove sorprese e nuovi sconvolgimenti. Cattura per la tensione che si crea nelle pagine e poi per la sintesi. Tutto sommato Sciascia è uno scrittore che non annoia proprio perché i suoi libri sono sempre una sintesi completa. Una sintesi alla quale nulla sfugge.
Tra gli scrittori che hanno interessato Sciascia sono certamente da ricordare e sottolineare Stendhal e Pirandello. L’interesse verso Pirandello è duplice. Da una parte la sicilianità e dall’altra l’ironia che si lega al personaggio e quindi allo sdoppiamento del personaggio, alla recita e alla vita. Sciascia pubblica un omaggio a Pirandello “Pirandello e la Sicilia” del 1961. La figura di Pirandello è presente soprattutto in alcuni contesti narrativi e dove il personaggio si muove tra la finzione e la realtà. Ma l’inchiesta continua e con gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” del 1971, “Todo modo” del 1974, “La scomparsa di Majorana” del 1975. Si passa dal suicidio al delitto e da questo alla scomparsa non chiarita del giovane scienziato. Insomma c’è un tracciato su cui si muovono numerose pedine. Ed è sempre l’inchiesta o l’indagine a fare da sfondo e attraverso l’inchiesta si ricavano le chiavi di lettura. Nel 1977 pubblica “Candido”. Un libro che ha spessore sia letterario che umano. C’è lo sfaldamento di alcuni valori e il senso della solitudine che trionfa al di là della questione ideologica che è quasi sempre presente. Ma in “Candido” c’è anche una pagina ricca di sentimento. Nel 1978 esce “L’affaire Moro”. La tragica vicenda che si consuma dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, è rivissuta da Sciascia attraverso le lettere di Moro e attraverso la ricostruzione di alcune pieghe degli avvenimenti. Nel 1979 esce “Nero su nero”, nel 1983 “Cruciverba”, nel 1985 “Occhio di capra” nel 1985 “Cronachette”, nel 1986 “La strega e il capitano”, nel 1986 “1912 + 1”, nel 1987 “Porte aperte”, nel 1988 “Il cavaliere e la morte”, nel 1989 “Alfabeto pirandelliano”. Sempre nel 1989 vedono la luce “Una storia semplice”, “Fatti diversi di storia letteraria e civile” e “A futura memoria”.
L’ultimo decennio è stato intenso. Dal giallo al racconto ironico, dal racconto al saggio. Proprio nel 1989 pubblica due raccolte di saggi che contengono scritti letterari e considerazioni varie.
Dall’ultimo decennio emerge una diversità di vedute sui problemi della vita e sul paese. Su due sponde si è orientato il suo cammino: il mistero e la ragione. Come il mistero e la ragione possano convivere in Sciascia ha tentato di spiegarcelo. Ma c’è tutto un discorso aperto sul quale impostare una discussione. Il pessimismo di Sciascia in fondo è ottimismo. O meglio, e qui c’è una patina religiosa, è la speranza. Nell’intervista citata dichiara: “E quale miglior prova di ottimismo di quella che continuo a dare scrivendo su quella che Machiavelli chiamava la verità effettuale delle cose e riscuotendo per questo le più violente reazioni degli stupidi – per non dir peggio? Il vero pessimismo sarebbe quello di non scrivere più, di lasciar libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuol dire, in definitiva, che sono inguaribilmente ottimista”.
Ed è una confessione che rende Sciascia sempre presente con quella sua coscienza critica sui fatti della vita e della politica nonostante le diverse posizioni alcune condivisibili e altre meno. Ma l’uomo è al di là di tutto. L’uomo con la sua coscienza e con il suo cuore. Leonardo Sciascia muore nel novembre del 1989.
La sicilianità è un dato caratterizzante che domina in Leonardo Sciascia. Già a cominciare dai suoi primi scritti questo sentimento è presente con una sua forza e una sua tensione. Basterebbe osservare non solo gli ambienti (il paese con i suoi interni, i suoi vicoli, le sue strade) ma soprattutto i personaggi. Sciascia a volte descrive con meticolosità i personaggi e li raffigura con un tocco ben preciso. Si pensi alla vedova Nicolosi ne “Il giorno della civetta”. Così la descrive: “Era bellina, la vedova: castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. Non era timida. Parlava un dialetto comprensibile…”.
“Il giorno della civetta” non è soltanto un racconto di mafia o di intrecci tra mafia e politica. È anche un racconto in cui i personaggi si mostrano e raccontano un’avventura. Ci sono disegni caratteriali. È un racconto che non si muove per ambienti ma proprio grazie ai personaggi che Sciascia riesce a costruire. Inizia con un omicidio. Ci sono i personaggi dell’autobus. I carabinieri. C’è il capitano Bellodi. Ci sono i fratelli Colasberna. C’è don Mariano. E c’è anche un personaggio, forse considerato minore, che si agita nelle prime pagine. È il panellaro. Il quadro contiene certamente altri nomi ed altri ruoli. È proprio grazie ai personaggi che intreccio si forma. Un altro personaggi che si uove nel primo contesto è il confidente. In Sciascia si creano dei movimenti. I suoi personaggi sono sempre in movimento e sembrano agitarsi su uno scenario che si mostra con tutta la sua naturalezza.
Non c’è niente di forzato. I personaggi e gli ambienti sono momenti caratteriali. Certo. Alcune osservazioni e alcune metodologie che Sciascia usa per definire un personaggio e ideologizzarlo non possono essere condivisi, ma va condiviso il tentativo di ironizzare.
Già dalle prime battute il quadro sembra abbozzato: “L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante ed ironica”.
Così il primo spaccato ha una sua intelaiatura. E in questo spaccato c’è la Sicilia dai colori vivaci e dell’omertà, c’è la Sicilia in cui la morte è nulla in confronto ala vergogna. C’è la Sicilia del silenzio e della fantasia: “La Sicilia è tutta una fantastica dimensione:e come ci si può star dentro senza fantasia?”. C’è la Sicilia meno conosciuta ma forse più vera: “Il capitano cominciò a parlare della Sicilia, più bella là dove è più aspra, più nuda. E dei siciliani che sono intelligenti: un archeologo gli aveva raccontano con quale abilità e alacrità e delicatezza i contadini sanno lavorare negli scavi, meglio degli operai specializzati del nord. È non è vero che siciliani sono pigri, e non è vero che non hanno iniziativa”. C’è la Sicilia dei paesi. E i paesi sono pietà e dolore, ricordo e fantasia: “È il mio paese: ma a volte, sa come succede, uno manca per un paio d’anni; e i ragazzi sono giovani, e i vecchi sono più vecchi… E non parliamo delle donne: le lasci che giuocano per strade con le noccioline, torni dopo un paio d’anni e le trovi con i bambini attaccati alla veste, e magari sformate nel corpo…”. C’è la Sicilia che resta legata all’infanzia: “Ne sono contento… E non è poi difficile ricordare certe cose, certe persone: specialmente se sono legate a un tempo felice della nostra vita: l’infanzia”. Insomma in questo racconto non c’è soltanto una storia di personaggi continuamente in conflitto, come finora si è voluto vedere, e giocati tra un religioso servizio alla mafia e in contrapposizione alla legge. Ma di quale legge dovrebbe trattarsi? La Sicilia va letta anche attraverso altre pagine e altre leggi. La Sicilia dei colori, ma anche la Sicilia della famiglia e dell’orgoglio: “Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza. Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari si infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine”.
Tutte queste annotazioni caratteriali fanno emergere certamente una Sicilia diversa. C’è la Sicilia dei don Mariano indubbiamente con il suo volto, con i suoi retroscena, con il suo dolore e la sua paura.
C’è anche una Sicilia che va amata per i suoi sentimenti, i suoi affetti, la sua storia. E in Sciascia non è giusto che si individui soltanto la prima Sicilia, la Sicilia dal volto amaro. Le ultime parole che chiudono il racconto segnano forse l’inizio della speranza o forse l’inizio di un’illusione, ma non emerge quel buio che più volte ha fatto di Sciascia uno scrittore pessimista. Si parla di Bellodi. Ecco: “Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. ‘In Sicilia le nevicate sono rare’ pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato”.
Con ciò non si vuole legare l’aspetto sociale che il racconto rivela ma, soprattutto a distanza di anni, sarebbe opportuno svolgere una verifica anche verso altre motivazioni. E motivazioni in “Il giorno della civetta” ne abbondano. Emerge l’aspetto ideologico. Qui bisognerebbe meditare un po’. Non si comprende come mai i personaggi positivi sono personaggi comunisti o che militano nella sinistra e invece i mafiosi a tutti i costi devono appartenere ad altre parrocchie. È un dato che si ripete anche negli altri racconti e pare che questo aspetto sia abbastanza forzato. Questo tendere a salvare i personaggi positivi contrassegnandoli con un marchio è del tutto gratuito. Ciò che salva questo aspetto è il tentativo di ironizzare altrimenti una tale inquadratura resterebbe riduttiva a tutto danno del racconto stesso. Ma Sciascia da intellettuale intelligente ha sperimentato con mano certe situazioni e il suo travaglio ideologico e il suo impegno sul piano politico lo hanno portato a fare delle scelte precise contrapponendolo a ciò in cui aveva creduto. Nei confronti di Sciascia ci fu una vera e propria campagna denigratoria. Si vedevano in lui il “disfattista” solo perché diceva ciò che realmente pensava.
Con il PCI ci furono rapporti contraddittori e conflittuali. Ma con onestà alle prime avvisaglie Sciascia si allontanò dal partito e da quella politica. Addirittura Sciascia e Berlinguer ebbero una dura polemica che finì in querele. Sia dalle colonne del l’”Unità” sia dalla colone de “la Repubblica” vennero lanciati degli insulti nei confronti di Sciascia soprattutto dopo la pubblicazione di “L’affare Moro”.
Con “Il giorno della civetta” siamo nel 1961. Passeranno pochi anni e Sciascia disegnerà altri spaccati con un’altra consapevolezza e nuovi aspetti. “Candido” resta certamente un libro della consapevolezza sul quale si dovrà meditare in quanto la tavola dei significati e delle offerte è abbastanza eterogenea. Ma è in “Il giorno della civetta” che i personaggi si mostrano già ben definiti e vivono di una loro storia e di un loro ruolo grazie anche ad una metafora che resterà intatta nei lavori successivi.
Di Sciascia, è chiaro, non tutto assurge a letteratura. Il suo insistere sulla tastiera della pagina cronaca molte volte ha creato dei capitoli privi di slancio. Sciascia stesso preferisce raccontare la quotidianità.
La quotidianità nega però l’ironia. C’è ironia quando cessa la descrizione, la forzatura del reale. C’è ironia-metafora quando Sciascia dimentica il peso delle ideologie. D’altronde la sua è stata un’indicazione minimalista. Da questo punto di vista andrebbe riesaminato il lavoro letterario dello scrittore siciliano. Tutto sommato è indubbiamente uno scrittore che va riesaminato ma non c’è, pur tirandola fuori, quella grande ironia che ha contraddistinto Brancati. Brancati è un altro tipo di scrittore, ha altri modelli, ha altri riferimenti. C’è un’altra pagina nei suoi libri. Anche la donna. In Brancati è passione. In Sciascia la donna c’è ma non è la stessa di Brancati. Forse è anche più aggressiva ma non è passione.
“Il giorno della civetta” resta un racconto del quotidiano. Ma bisognerebbe andare al di dà della schematizzazione in cui Sciascia si è andato a ficcare. Perché oltre la sclerotizzazione ideologica alcune pagine sarebbero da rivedere.
Non c’è dubbio. I racconti di Sciascia sono dei buoni racconti. Ma non vanno oltre. Ci sono i personaggi. Ci sono sintomi caratteriali. Ma per tentare di capire occorrerebbe anteporre a Sciascia il già citato Brancati. In Brancati la cronaca è sempre superamento. Brancati attraversa la cronaca per recuperare l’ironia e il senso che questa ironia ha nel corpo e nel cuore dei personaggi. Sciascia non supera la cronaca. È lo scrittore che fa cronaca perché nella cronaca realizza il suo modello di scrittura. Per rivisitarlo si sono cercate alcune pagine, quelle meno consumate, quelle che hanno una attinenza maggiore con il respiro ironico e con la metafora. Altrimenti se Sciascia lo si considera lo scrittore che ha denunciato la connivenza tra mafia e politica, la funzione letteraria cessa e resta il cornista che non nulla a che vedere con l’ironia della pagina e con la letteratura che possa durare.
Allora un discorso andrebbe fatto. Si preferisce lo Sciascia cronista o si dovrà fare in modo di recuperare e rileggere quelle pagine che contengono un respiro diverso? È certo che si tratta di una operazione difficile e complessa, ma forse con il tempo e con una rivisitazione generale della letteratura contemporanea molte cose si chiariranno.
In “Il giorno della civetta” si legge: “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più sole né luna, c’è la verità”.
Questa intelligente e schietta osservazione ci introduce come di schianto in “A ciascuno il suo”. È ancora una volta un racconto di paese. Il paese è al centro della storia. più che in ogni altro racconto qui il paese fa da protagonista. Ed ha coscienza e cuore. Ha personaggi che sono costantemente in movimento. Tra i personaggi si agita un binomio: vita e morte. Tra vita e morte si consumano le diatribe, gli inganni, le finzioni di un paese che alla fine racconta la sua verità.
Il farmacista del paese riceve una lettera in cui lo si minaccia di morte. Durante una campagna di caccia la minaccia si avvera. Il farmacista viene ucciso e viene ucciso anche il dottore, suo amico, che si trova con lui. Comincia così l’inchiesta che no approda a nulla. Un professore di Lettere per conto suo svolge un’indagine. Arrivato al bandolo della matassa viene rapito e si può immaginare la sua fine. L’intreccio è tra il giallo e il passionale. C’è di mezzo l’amore, ma c’è di mezzo anche la mafia e la politica.
I personaggi femminili in “A ciascuno il suo” rivestono un loro ruolo ben preciso. Così come in “Il giorno della civetta”. Così come vedremo in “Candido”. In “Il giorno della civetta”la vedova Nicolosi è sicuramente una chiave interpretativa da riconsiderare sia come personaggio tout court che come personaggio che rivela una profonda sicilianità. In “A ciascuno il suo” i personaggi femminili costituiscono l’anima del racconto stesso. Si pensi alla mamma del professore di Lettere. Si pensi alla moglie del farmacista. Si pensi alla moglie del dottore che è il polo intorno al quale gli avvenimenti giungono al tragico epilogo. Si pensi ancora alla ragazza che si reca in farmacia e viene sospettata di mantenere una relazione con il farmacista. Si pensi al dialogo tra il professore di Lettere e il padre del dottore ucciso insieme la farmacista. Riferendosi alla nuova il padre del dottore dice: “… mia nuora è molto bella, no?” – “ O forse molto donna, di quelle che quando io ero giovane si dicevano da letto – con distacco da intenditore, quasi no parlasse della moglie di suo figlio, ora morto, e muovendo le mani a disegnare il corpo disteso. – Credo che questa espressione non si usi più, la donna è caduta dal mistero dell’alcova e da quello dell’anima. E sa che penso? Che la Chiesa cattolica stia registrando oggi il suo più grande trionfo: l’uomo odia finalmente la donna. Non c’era riuscita nemmeno nei secoli più grevi, più oscuri. C’è riuscita oggi. E forse un teologo direbbe che è stata un’astuzia della Provvidenza: l’uomo credeva, anche in fatto di erotismo, di correre sulla via maestra della libertà; e invece è finito in fondo al’antico sacco”.
La risposta del professore recita così: “Sì, forse… Benché mi pare che mia come oggi, nel mondo diciamo cristiano, il corpo della donna sia stato così esaltato, così esposto; e la stessa funzione di richiamo, di fascino, che la pubblicità commerciale assegna alla donna…”.
C’è ancora la replica del padre del dottore: “Lei ha detto una parola che contiene, in definitiva, l’essenza della questione: esposto, il corpo della donna è esposto. Esposto come un tempo restavano esposti gli impiccati… Giustizia è stata fatta, insomma…”.
Anche questi dialoghi costituiscono la forza del racconto. Si ritorna al discorso fatto precedentemente. Nei racconti di Sciascia c’è tutto un mondo da catturare da interpretare. La Sicilia allora si trova anche in questi dialoghi e nella tensione che si registra tra il professore e il padre del dottore.
I personaggi femminili giocano una loro funzione e così le donne. Non è condivisibile l’opinione di Gesualdo Bufalino quando sostiene che “Nelle opere di Sciascia la donna è quasi assente o sullo sfondo”. In “A ciascuno il suo” invece il racconto è costruito su figure femminili. D’altronde la morte stessa del dottore è da circoscrivere in questo contesto. La moglie del dottore ha un amante, il cugino, e il marito è di ostacolo. L’adulterio vive in questa storia come vive in “Candido”. Ma non c’è passione, comunque. E la donna, come in “Candido”, costituisce il personaggio centrale soprattutto se si dà al racconto un’interpretazione meno consumata e più ricca di connotati sentimentali. Nei racconti di Sciascia non si deve cesellare soltanto il razionale dando prevalenza alla ragione. Ci sono altre sottolineature da fare. Il dato romantico per esempio. La moglie del dottore in fondo tradisce perché non è più innamorata del marito, perché ha sempre amato il cugine, perché con il cugino ha sonato di costruire una vita insieme e solo per futili motivi si sono dovuti allontanare. Queste valutazioni sono da tenere presenti. Non si può raccontare il tutto come un fatto di cronaca o racchiudere queste vicende nel marginale. La mafia certamente, la politica, il solito intreccio ironico tra comunisti da una parte e cattolici mafiosi dall’altra. Insomma cosa che abbiamo già letto e ingoiato, ma questi adulteri, come in “Candido”, come considerarli?
Tra l’ironico e il faceto il punto è così spiegato: “.. Qui, in questa terra della gelosia e dell’onore, si trovano i più perfetti esemplari di cornuti… E poi il fatto è che il povero dottore era innamorato pazzo della moglie”.
Una storia similare si consuma tra l’avvocato Munafò e Maria Grazia in Candido. Un adulterio. Un suicidio. Una parvenza di cattolicesimo. Il comunismo di Candido e di don Antonio, Francesca.
L’incontro di Candido con la madre avvenuto a Parigi. E nuovamente politici in odore di mafia.
Anche in “Candido” la donna occupa lo scenario. Prima la madre. Poi Concetta che si occupa dell’educazione di Candido. Paola. Francesca. C’è un itinerario che è già una indicazione.
La donna costituisce una forza vitale. L’assenza di Paola fa precipitare nella noia Candido. “Senza Paola, il tempo era per Candido fermo e dura come un macigno, sera era come contratto e conficcato nel presente: e a tentare di rivoltarlo, non sarebbe apparso che il passato. C’era il lavoro, c’erano i libri, c’erano le conversazioni con don Antonio: ma tutto era ripetizione, noia, pena”.
Questa forza vitale che è a donna aiuta il racconto stesso. Sciascia scrive delle pagine esemplari proprio quando ci sono alcune riaffermazioni che riguardano l’amore o la donna. Per esempio i capitoli in cui si parla dei viaggi di Candido e Francesca (il soggiorno a Torino e i viaggi a Parigi e la decisione di stabilirvisi) sono delle parti che condensano una ricchezza di immagini e anche di pensiero. Candido e Francesca si ritrovano proprio nell’amore e nell’amore Candido si ritrova e ritrova l’armonia dopo l’inquietudine degli anni dell’ideologia. Una nuova speranza è nel cuore di Candido e Francesca. Candido alla fine si sente felice. Ma cosa è questa felicità? Non è forse il superamento dell’inquietudine e il ritrovarsi con Francesca lontano da ciò in cui aveva creduto e lontano da quell’illusione di cui si era tanto nutrito e vantato?
Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia conserva delle belle pagine. C’è certamente dentro il migliore Sciascia. Sciascia ironico. Sciascia pungente, Sciascia lucido, Sciascia romantico e sentimentale, Sciascia allegorico, Sciascia che ha capito l’illusione delle ideologie. C’ una pagina di grande stile che custodisce il segreto di questo libro. Eccola: “Vedi – diceva don Antonio – le donne appartengono al mio passato di prete. Per amarle veramente, o per amarne una, io dovrei liberarmi di quel passato. È stata una lunga malattia; ed ora sono in convalescenza. È facile far credere uno dopo l’altro, come nel baraccone del tiro a bersaglio, tutti i dogmi, i simulacri e i simboli che sono stati parte della tua vita… Ma tutti quei dogmi, quei simulacri, quei simboli che tu credi di avere abbattuto, vanno a raccogliersi e nascondersi nel corpo della donna, nell’idea dell’amore o semplicemente nel fare all’amore. Mi sento talmente nella verità, in ogni cosa, in ogni pensiero, che a momenti mi pare di aver valicato la soglia del segreto, del mistero: e cioè che non c’è segreto, non c’è mistero; che tutto è semplice, dentro e fuori di noi. Ma amare o fare all’amore in questa semplicità, o sul confine, credo non mi sarebbe possibile né mi piacerebbe. E per quanto si corra nella libertà, credo che in questo la Chiesa, le Chiese, quelle che ci sono, quelle che verranno, avranno la meglio. Tra le lettere di San Paolo e il “De l’amour” di Stendhal il discorso corre sullo stesso filo di fuoco: l’inferno dell’altro mondo, l’inferno di questo; ed è un discorso bellissimo”.
Riflettere su queste considerazioni è aprire un nuovo modello di confronto con Sciascia. Tra l’amore di candido e Francesca corrono paesi e corre il ricordo. La Sicilia abbandonata non diventa rimorso.
In entrambi c’è la consapevolezza dell’appartenenza ad una terra ma c’è anche il sentimento della distanza. Candido e Francesca sono usciti fuori da un mondo per ritrovarsi e per vivere l’amore. e in questo amore c’è il segno di una antica speranza. Alla fine Candido “Si sentiva figlio della fortuna”.
E allora il pessimismo di Sciascia dove è possibile trovarlo?
Il pessimismo di Sciascia non è una giustificazione. Ci sono pagine dei suoi libri che rivelano questo aspetto. Non può essere negato. Ma Sciascia lo spiega. In una battuta in “A ciascuno il suo” si legge: “Stiamo affondando, amico mio, stiamo affondando… Questa specie di nave corsara che è stata la Sicilia, col suo bel gattopardo che rampa a prua, coi colori di Guttuso nel suo gran pavese, coi suoi più decorativi pezzi da novanta cui i politici hanno delegato l’onore del sacrificio, coi suoi scrittori impegnati, coi suoi Malavoglia, coi suoi Percolla, coi suoi loici cornuti, coi suoi folli, coi suoi demoni meridiani e notturni, con le sue arance, il suo zolfo e i suoi cadevi nella stiva: affonda, amico mio, affonda…”.
È indubbiamente un pessimismo con il quale ci si imbatte e ci si resta incollati totalmente. Ma non è Sciascia ad essere pessimista. Egli stesso a chi gli rimproverava di essere pessimista rispondeva con molta calma ed eleganza dicendo: “Non è vero. Piuttosto è la realtà ad essere pessima” (Walter Vecellio, “Il Sabato” del 30 dicembre 1989).
Con questa realtà Sciascia ha dovuto fare i conti frequentemente. Ha dovuto scontrarsi con questa realtà. Si pensi al caso Majorana. Si pensi al caso Moro. “L’affaire Moro” è un libro che condensa pietà e dolore. La morte di Moro è ricostruita attraverso u parametro che ha nel suo fondo una dimensione umana robusta. Sciascia parla di Moro uomo e riporta in luce le lettere indirizzate a uomini politici e alla moglie.
Le prime quattro pagine sono pagine fornite di una corazza sentimentale e stilistica che si addice a scrittori che hanno raggiunto uno spesso di conoscenza non indifferente. La partita, Sciascia, la gioca contro gli “uomini della fermezza”. Contro i comunisti e contro i democristiani. I quali si sono opposti al ricatto dei brigatisti. E in questo saggio-racconto tutto viene decifrato. Con fermezza Sciascia sostiene: “Il punto di consistenza del dramma, la ragione per cui a Moro si deve in riconoscimento (in ‘riconoscenza’) la morte sta appunto in questo: che è stato l’artefice del ritorno, dopo trent’anni, del Partito Comunista nella maggioranza di governo. E le Brigate rosse non solo gliene fanno esplicita imputazione nei loro comunicati, ma ne danno con funebre ardimento la solenne e simbolica rappresentazione facendo ritrovare il suo corpo tra via delle Botteghe Oscure dove ha sede la Democrazia Cristiana (la forza dei nomi: le botteghe oscure, il Gesù dei gesuiti; e non so se la via Caetani, dove il corpo di Moro è stato portato, ha nome dalla famiglia cui appartenne Bonifacio VIII, o dell’arabista: e va bene nell’uomo o nell’altro caso)”.
Ci si pone l’interrogativo: perché Moro non è stato salvato? Sciascia pone in frontespizio un concetto di E. Canetti che dice: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”.
Questo libro sollevò pesantissime polemiche. Sciascia considerava le lettere di Moro autentiche sin dall’inizio. Allora tutti li ritenevano false. Sciascia fu attaccato da tutti i versanti. Si crearono degli schieramenti e Sciascia fu tra quelli che cercarono di strappare Moro ai brigatisti.
“L’affaire Moro” ancora oggi ripropone un capitolo drammatico della nostra storia, ma è affrontato con lucidità e umanità. Un capitolo di storia ma anche un capitolo in cui l’uomo si dibatte tra il mistero e la verità alla ricerca di una speranza antica.
Il 1988 pubblica, come si è detto, “Il cavaliere e la morte”. Un libro in cui affiora una malinconia profonda. È sempre una malinconia legata a una angoscia che non stanca. La morte come cara compagna che segue ogni processo esistenziale e riposa nelle pieghe dei giorni per esplodere nel giorno deciso. La metafora non è più la morte. Ormai ogni metafora scompare e resta la certezza di essere presenti a se stessi. Anche la morte è la presenza che cattura. Un libro che sembra un testamento. E si legge appunto come un testamento. È la testimonianza che si dichiara e si impossessa di tutto ciò che è stato. Il cavaliere e la morte conducono la loro battaglia. Tra la vittoria e la sconfitta l’uomo si ritrova con il suo tempo e la sua storia accartocciati in una memoria che continua a raccontare.
Tra gli ultimi suoi libri è da ricordare il racconto dal titolo “Una storia semplice”. Un diplomatico in pensione viene trovato morto nella sua villa. Si pensa subito al suicidio. Ma c’è un colonnello dei carabinieri che appoggia l’ipotesi dell’omicidio. Si snocciolano diverse vicende. Altri omicidi sullo scenario. Conflitti tra polizia e carabinieri. Ancora una volta è il racconto breve che cattura immediatamente. Fa da sfondo con tocchi che arricchiscono la curiosità la figura di Pirandello.
Dubbi, intrecci, moventi occupano il resto. Il racconto si muove tra i personaggi che rappresentano, come in tutti i lavori precedenti, un destino che segna la trama del racconto stesso. L’Italia degli ultimi anni affiora e Sciascia la incapsula con energia raffigurandola con particolare incisività. Si tratta di un racconto breve, ma ben condensato e ben sviluppato.
Parlando di questo racconto Sciascia disse: “Di quest’ultimo racconto ci sarebbe da fare un racconto. Me lo sono raccontato per mesi: è stato un modo di sopravvivere allo strazio della malattia e delle cure, quasi in doloroso dormiveglia. Posso dire di averlo mentalmente scritto pagina per pagina: e sarebbero state circa trecento. Ma appena ho trovato quel poco di energia che mi ha permesso materialmente di scriverlo, sono venute fuori una cinquantina di pagine: e mi pare di non aver lasciato fuori nulla di tutto quel che avevo mentalmente scritto nelle trecento. Il romanzo è diventano apologo: ma è meglio così. Per me certamente, per i lettori lo spero”. (Benedetta Craveri, “La Repubblica” 28 ott. ’89).
In “Una storia semplice” ci sono tutti i temi del viaggio narrativo e umano che hanno contraddistinto e caratterizzato Sciascia. C’è una scrittura di una chiarezza estrema. Si legge senza sottolinearlo e senza rileggerlo. E si assorbe subito. Come “Il cavaliere e la morte” c’è un velo sottile di malinconia.
In questa malinconia c’è anche la sua sicilianità. La sua sicilianità resta uno “stato d’animo”. Ma resta anche la coscienza di una appartenenza attraverso la quale il bene e il male, la storia e il tempo freneticamente si scontrano e si incontrano, dialogano e stanno in conflitto. Ma ci sono. Così come c’è la terra, la Sicilia, e il sentimento dell’appartenenza.
È la terra dei Gattopardi, dei Brancati, dei Quasimodo, dei Pirandello. È la terra in cui il mutamento è restare fedeli. A conclusione degli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel si legge: “I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da ‘atti relativi’ diventano, per così dire, ‘atti assoluti’. Come diceva quel poliziotto di Grahm Green: ‘Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali se possono pubblicare’. Anche noi, tutto sommato”.
E si ritorna sempre, come un luogo da cui si parte perché è qui che bisogna tornare, alla metafora.
Nella metafora: perché è nella metafora che si ritrova il mistero-enigma-sospetto. È nel mistero si ritrova il viaggio d’identità, il ritorno. Ma purtroppo c’è anche la cronaca. Sciascia si è troppo calato nella cronaca.
C’è una frase di Pascal che Sciascia pone come frontespizio a “Dalle parti degli infedeli” del 1979 che dice: “Il servo non sa quel che fa il suo padrone, poiché questi gli dice soltanto dell’azione, non del fine da raggiungere; e perciò vi si assoggetta servilmente e spesso peccando contro il fine. Ma Gesù Cristo ci ha insegnato il fine. E voi lo distruggete”. È qui che si conclude questo incontro con Leonardo Sciascia. È certo che occorre rileggerlo ma occorre anche una nuova interpretazione.
Nei suoi libri ci sono precisi riferimenti. Pagine di commenti, indicazioni e suggerimenti. Il primo Sciascia è diverso dall’ultimo. Nei primi libri la forzatura ideologica, in alcune pagine, sembra addirittura una montatura. Ma scorrendo il resto ci si accorge come quelle pagine possono restare isolate. Ma mano che si va avanti si comprende come la forzatura ideologica si fa più dilatata.
Subentra una maggiore consapevolezza ma subentra anche una maggiore esperienza a contatto con quella ideologia alle quali Sciascia sentiva di appartenere.
“Candido” è un libro che non nasconde, ma rivela con coraggio ridicolizzando quel partito al quale Candido era legato. Ma la di dà di questo c’è lo scrittore che si abbandona e traccia pagine testimonianza. Il paese, i personaggi, la donna, l’amore. ecco potremmo rileggerlo attraverso queste indicazioni. E in ultimo la morte. “Il cavaliere e la morte” è la malinconia che cerca la metafora, ma è anche la malinconia che chiede di durare.
La vita e la morte. O forse altro? I personaggi non sono pezzetti del mosaico. Ormai sono il mosaico.
Con le sue tinte e le sue voci. Ecco. I personaggi di Sciascia sono le voci. Le voci che lo hanno accompagnato lungo il suo cammino. E restano come voci a parlarci. E ogni parola chiede una pausa e una meditazione. Ma in Sciascia c’è l’attesa. Basti pensare a gran parte dei personaggi. Sono personaggi dell’attesa. Anche il mafioso. Si pensi a don Mariano. Si pensi anche al capitano Bellodi.
Si pensi al commissario di polizia in “Una storia semplice”. E questa attesa è forse la riconversione della malinconia. Ma la vita e la morte, senza angoscia e senza disperazione, disegnano l’inquietudine.
Sciascia con i suoi racconti e con le sue pagine di prosa (non solo su Pirandello) ha reagito, soprattutto negli ultimi anni, a un conformismo dilagante che ha ormai invaso e occupato la storia di questo Paese.
Certo. Va riletto. Ma va anche interpretato diversamente.
Si è parlato di mistero e di attesa. Ma occorre chiarire questo discorso. Il mistero e l’attesa non sono un fatto religioso in Sciascia. Il mistero e l’attesa sono semplicemente due modi per chiarire o per parlare degli enigma che hanno travagliato la realtà di questo Paese, nel quale Sciascia ha calato le sue storie e i suoi personaggi. Niente di particolare e niente di trasversale. In Sciascia tutto sommato no si sono agitati grandi temi esistenziali o religiosi. Tutto ciò che è approdato sulle pagine e nei libri di Sciascia è venuto fuori dalla cronaca. La rappresentazione del quotidiano: questo interessava Sciascia. Portare sulla pagina il fatto e raccontare il fatto hanno costituito per Sciascia un modello di comunicazione.
Il discorso che in questi anni Sciascia ha portato avanti nei confronti di un modello letterario tutto costruito sulla cronaca non ha d’altronde, così sembra, giovato alla sua resa letteraria. Un libro può essere un buon libro indubbiamente, ma i risultati, se si parla di racconto o di romanzo, devono avere una loro verifica. E la verifica la si ha sul piano della resa. Il problema, in tal senso, non è Sciascia ma è un modello di letteratura. Temi, contorni, riferimenti, metafore ci sono in Sciascia. C’è pure il sogno. Ma a questo attraversamento si è fatto prevalere la cronaca come rappresentazione di una vicenda, come descrizione, come indicazione anche di lettura. La cronaca va letta, ma ciò che resta, alla fine, non è la cronaca, ma la letteratura.
Non vuole essere, questa, una conclusione riduttiva dopo aver parlato e accettato gli scritti di Sciascia e non vuole essere una contraddizione con ciò che si è detto prima. Vuole essere soltanto un modello di approccio che dovrà spingerci ad una reale verifica. Non possono essere accolte certe proposte che Sciascia fa sul piano della letteratura perché non si crede ad una letteratura-cronaca. Ma Sciascia indubbiamente resta un testimone, un testimone interessante e intelligente, di questi nostri anni. Ha scritto dei libri sui quali si è discusso, si è dibattuto, si è meditato. Ma la letteratura resta un mistero non un ragionamento e la parola è sempre grazia e non un calcolo. Forse è proprio quei la distinzione tra la cronaca e la fantasia. Forse è proprio qui la distinzione tra Brancati e Sciascia. Anche l’ironia è qualcosa che non si costruisce perché è nel mistero che accompagna la scrittura. Mentre la denuncia non è nell’ironia ma è nella quotidianità che chiede di esprimersi. E Sciascia alla cronaca e alla denuncia si è affidato. Forse per testimoniarsi o forse perché la fantasia è sempre oltre la cronaca (o oltre la realtà).
Sciascia nasce a Recalmuto nel 1921. Nei suoi lavori la Sicilia è sempre presente. In questo caso non vi compare una Sicilia dalle immagini romantiche o una Sicilia romanzata. La Sicilia è sì un emblema che rincorre il sentimento, ma è anche soprattutto la coscienza dello scrittore. Ecco, dunque, la coscienza pensante. La Sicilia come meridionalità e mediterraneità, ma anche la Sicilia come appartenenza ad una terra, a un valore, ad una ereditarietà. Ma, ancora di più, la Sicilia come destino.
Prevale su questo tracciato il documento certamente, ma è un documento freddo, lontano dal cuore dello scrittore, o un documento bloccato sulla cronaca. Ci sono i personaggi e i personaggi rivitalizzano la cronaca stessa rendendola partecipata e partecipativa. Il racconto si muove all’interno della cronaca.
Nel 1950 pubblica “Favole della dittatura”. Un libro incerto privo di slancio e fragile. Così la sua raccolta di poesie di due anni dopo dal titolo “Sicilia, il suo cuore”. Certo. La Sicilia è al centro di queste prime avventure letterarie, ma la stessa proiezione letteraria e completamente fragile. Nel 1956 pubblica “Le parrocchie di Regalpetra”. Un libro nel quale l’inchiesta si apre a ventaglio su una scrittura viva e intensa. Con questo libro Sciascia sottolinea già la sua avventura di scrittore e fa una ipoteca su ciò che scriverà in futuro.
Nel 1958 escono i racconti dal titolo “Gli zii di Sicilia”. In questi racconti si respira un’atmosfera da cronaca. È uno spaccato storico ben preciso. Garibaldi, la Spagna, il Fascismo, il 1943 e la morte di Stalin. Attraverso questi passaggi Sciascia disegna un quadro nel quale le tinte e i chiaroscuri sembrano avere una impostazione ideologica ma, alla fine, ci si accorge che ciò che resta è soltanto una angoscia di fondo. d’altronde è così in quasi tutti i suoi libri. In Sciascia c’è una ironia-allegoria, ma c’è soprattutto la realtà che si raccoglie ora intorno al personaggio ora intorno al racconto stesso.
Ma accanto all’ironia si affianca la denuncia. In una intervista apparsa sul supplemento de “la Repubblica” del ’28 ottobre 1989 alla domanda: Ad attrarla maggiormente è la soluzione dell’enigma o il mantenimento del mistero”? Sciascia rispondeva: “Il mantenimento del mistero: che non ha mai soluzione anche quando sembra trovarla. Il “giallo” presuppone l’esistenza di Dio. E l’esistenza di Dio… ma fermiamoci qui”. Il titolo dell’intervista: “Il mistero, questo nostro pane quotidiano”. È firmata da Benedetta Craveri.
Ecco. I suoi libri si muovono proprio intorno a questo mistero. un mistero che non chiede di essere ascoltato dalla ragione perché resta sempre avvolto nella dimensione del sospetto e dell’attesa. I fatti si raccontano, vengono raccontati, possono restare tali ma subentra quasi sempre un’altra entità: l’impossibilità di afferrare il sogno. Si pensi a “Candido”. Si pensi a “Il cavaliere e la morte”. Ma proseguiamo con ordine. Il 1961 pubblica “Il giorno della civetta”. È un racconto che lo fa conoscere al grande pubblico. È una storia di mafia. C’è un delitto iniziale che richiama altre simili situazioni di sangue e di omertà. C’è naturalmente l’inchiesta. È affidata a un capitano del nord. Si creano diversi e complicati intrecci ma alla fine non si approda a nulla. La mafia supera ogni sbarramento. C’è, come sempre, di mezzo la politica. Ma l’atmosfera che si crea è certamente una atmosfera di attesa. È anche un racconto attraversato dal sentimento. “Il Consiglio d’Egitto” è del 1963. Si tratta di un romanzo storico il cui ambiente riflette la Palermo del vicereame di Caracciolo. Il pessimismo di Sciascia affiora con intelligenza e sobrietà. I fatti hanno una loro drammatizzazione e si consumano all’interno di un incrocio che vede protagonista la pietà. Sullo stesso tracciato si incontrano libri come “L’onorevole” del 1964, “Morte dell’inquisitore” del 1964, “Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D.” del 1970. In quest’ultimo scritto (si tratta di un dramma) c’è una metafora graffiante. C’è la rievocazione di un episodio avvenuto tra Stato e Chiesa nel 1700. Ma la metafora o l’allegoria ci riporta alla Praga devastata e occupata dai carri armati sovietici durante la primavera del 1968. È una allusione interessante con la quale Sciascia mette continuamente in discussione il marxismo condannandolo e mostrando (questo dramma è un esempio ma non unico) il vero volto del comunismo.
Verso un altro versante vanno i libri “A ciascuno il suo” del 1966, “Il contesto” del 1971, “I pugnalatori” del 1976. Il giallo di Sciascia è un giallo intraprendente. È un giallo che riserva fino all’ultimo sempre nuove sorprese e nuovi sconvolgimenti. Cattura per la tensione che si crea nelle pagine e poi per la sintesi. Tutto sommato Sciascia è uno scrittore che non annoia proprio perché i suoi libri sono sempre una sintesi completa. Una sintesi alla quale nulla sfugge.
Tra gli scrittori che hanno interessato Sciascia sono certamente da ricordare e sottolineare Stendhal e Pirandello. L’interesse verso Pirandello è duplice. Da una parte la sicilianità e dall’altra l’ironia che si lega al personaggio e quindi allo sdoppiamento del personaggio, alla recita e alla vita. Sciascia pubblica un omaggio a Pirandello “Pirandello e la Sicilia” del 1961. La figura di Pirandello è presente soprattutto in alcuni contesti narrativi e dove il personaggio si muove tra la finzione e la realtà. Ma l’inchiesta continua e con gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” del 1971, “Todo modo” del 1974, “La scomparsa di Majorana” del 1975. Si passa dal suicidio al delitto e da questo alla scomparsa non chiarita del giovane scienziato. Insomma c’è un tracciato su cui si muovono numerose pedine. Ed è sempre l’inchiesta o l’indagine a fare da sfondo e attraverso l’inchiesta si ricavano le chiavi di lettura. Nel 1977 pubblica “Candido”. Un libro che ha spessore sia letterario che umano. C’è lo sfaldamento di alcuni valori e il senso della solitudine che trionfa al di là della questione ideologica che è quasi sempre presente. Ma in “Candido” c’è anche una pagina ricca di sentimento. Nel 1978 esce “L’affaire Moro”. La tragica vicenda che si consuma dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, è rivissuta da Sciascia attraverso le lettere di Moro e attraverso la ricostruzione di alcune pieghe degli avvenimenti. Nel 1979 esce “Nero su nero”, nel 1983 “Cruciverba”, nel 1985 “Occhio di capra” nel 1985 “Cronachette”, nel 1986 “La strega e il capitano”, nel 1986 “1912 + 1”, nel 1987 “Porte aperte”, nel 1988 “Il cavaliere e la morte”, nel 1989 “Alfabeto pirandelliano”. Sempre nel 1989 vedono la luce “Una storia semplice”, “Fatti diversi di storia letteraria e civile” e “A futura memoria”.
L’ultimo decennio è stato intenso. Dal giallo al racconto ironico, dal racconto al saggio. Proprio nel 1989 pubblica due raccolte di saggi che contengono scritti letterari e considerazioni varie.
Dall’ultimo decennio emerge una diversità di vedute sui problemi della vita e sul paese. Su due sponde si è orientato il suo cammino: il mistero e la ragione. Come il mistero e la ragione possano convivere in Sciascia ha tentato di spiegarcelo. Ma c’è tutto un discorso aperto sul quale impostare una discussione. Il pessimismo di Sciascia in fondo è ottimismo. O meglio, e qui c’è una patina religiosa, è la speranza. Nell’intervista citata dichiara: “E quale miglior prova di ottimismo di quella che continuo a dare scrivendo su quella che Machiavelli chiamava la verità effettuale delle cose e riscuotendo per questo le più violente reazioni degli stupidi – per non dir peggio? Il vero pessimismo sarebbe quello di non scrivere più, di lasciar libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuol dire, in definitiva, che sono inguaribilmente ottimista”.
Ed è una confessione che rende Sciascia sempre presente con quella sua coscienza critica sui fatti della vita e della politica nonostante le diverse posizioni alcune condivisibili e altre meno. Ma l’uomo è al di là di tutto. L’uomo con la sua coscienza e con il suo cuore. Leonardo Sciascia muore nel novembre del 1989.
La sicilianità è un dato caratterizzante che domina in Leonardo Sciascia. Già a cominciare dai suoi primi scritti questo sentimento è presente con una sua forza e una sua tensione. Basterebbe osservare non solo gli ambienti (il paese con i suoi interni, i suoi vicoli, le sue strade) ma soprattutto i personaggi. Sciascia a volte descrive con meticolosità i personaggi e li raffigura con un tocco ben preciso. Si pensi alla vedova Nicolosi ne “Il giorno della civetta”. Così la descrive: “Era bellina, la vedova: castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. Non era timida. Parlava un dialetto comprensibile…”.
“Il giorno della civetta” non è soltanto un racconto di mafia o di intrecci tra mafia e politica. È anche un racconto in cui i personaggi si mostrano e raccontano un’avventura. Ci sono disegni caratteriali. È un racconto che non si muove per ambienti ma proprio grazie ai personaggi che Sciascia riesce a costruire. Inizia con un omicidio. Ci sono i personaggi dell’autobus. I carabinieri. C’è il capitano Bellodi. Ci sono i fratelli Colasberna. C’è don Mariano. E c’è anche un personaggio, forse considerato minore, che si agita nelle prime pagine. È il panellaro. Il quadro contiene certamente altri nomi ed altri ruoli. È proprio grazie ai personaggi che intreccio si forma. Un altro personaggi che si uove nel primo contesto è il confidente. In Sciascia si creano dei movimenti. I suoi personaggi sono sempre in movimento e sembrano agitarsi su uno scenario che si mostra con tutta la sua naturalezza.
Non c’è niente di forzato. I personaggi e gli ambienti sono momenti caratteriali. Certo. Alcune osservazioni e alcune metodologie che Sciascia usa per definire un personaggio e ideologizzarlo non possono essere condivisi, ma va condiviso il tentativo di ironizzare.
Già dalle prime battute il quadro sembra abbozzato: “L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante ed ironica”.
Così il primo spaccato ha una sua intelaiatura. E in questo spaccato c’è la Sicilia dai colori vivaci e dell’omertà, c’è la Sicilia in cui la morte è nulla in confronto ala vergogna. C’è la Sicilia del silenzio e della fantasia: “La Sicilia è tutta una fantastica dimensione:e come ci si può star dentro senza fantasia?”. C’è la Sicilia meno conosciuta ma forse più vera: “Il capitano cominciò a parlare della Sicilia, più bella là dove è più aspra, più nuda. E dei siciliani che sono intelligenti: un archeologo gli aveva raccontano con quale abilità e alacrità e delicatezza i contadini sanno lavorare negli scavi, meglio degli operai specializzati del nord. È non è vero che siciliani sono pigri, e non è vero che non hanno iniziativa”. C’è la Sicilia dei paesi. E i paesi sono pietà e dolore, ricordo e fantasia: “È il mio paese: ma a volte, sa come succede, uno manca per un paio d’anni; e i ragazzi sono giovani, e i vecchi sono più vecchi… E non parliamo delle donne: le lasci che giuocano per strade con le noccioline, torni dopo un paio d’anni e le trovi con i bambini attaccati alla veste, e magari sformate nel corpo…”. C’è la Sicilia che resta legata all’infanzia: “Ne sono contento… E non è poi difficile ricordare certe cose, certe persone: specialmente se sono legate a un tempo felice della nostra vita: l’infanzia”. Insomma in questo racconto non c’è soltanto una storia di personaggi continuamente in conflitto, come finora si è voluto vedere, e giocati tra un religioso servizio alla mafia e in contrapposizione alla legge. Ma di quale legge dovrebbe trattarsi? La Sicilia va letta anche attraverso altre pagine e altre leggi. La Sicilia dei colori, ma anche la Sicilia della famiglia e dell’orgoglio: “Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza. Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari si infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine”.
Tutte queste annotazioni caratteriali fanno emergere certamente una Sicilia diversa. C’è la Sicilia dei don Mariano indubbiamente con il suo volto, con i suoi retroscena, con il suo dolore e la sua paura.
C’è anche una Sicilia che va amata per i suoi sentimenti, i suoi affetti, la sua storia. E in Sciascia non è giusto che si individui soltanto la prima Sicilia, la Sicilia dal volto amaro. Le ultime parole che chiudono il racconto segnano forse l’inizio della speranza o forse l’inizio di un’illusione, ma non emerge quel buio che più volte ha fatto di Sciascia uno scrittore pessimista. Si parla di Bellodi. Ecco: “Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. ‘In Sicilia le nevicate sono rare’ pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato”.
Con ciò non si vuole legare l’aspetto sociale che il racconto rivela ma, soprattutto a distanza di anni, sarebbe opportuno svolgere una verifica anche verso altre motivazioni. E motivazioni in “Il giorno della civetta” ne abbondano. Emerge l’aspetto ideologico. Qui bisognerebbe meditare un po’. Non si comprende come mai i personaggi positivi sono personaggi comunisti o che militano nella sinistra e invece i mafiosi a tutti i costi devono appartenere ad altre parrocchie. È un dato che si ripete anche negli altri racconti e pare che questo aspetto sia abbastanza forzato. Questo tendere a salvare i personaggi positivi contrassegnandoli con un marchio è del tutto gratuito. Ciò che salva questo aspetto è il tentativo di ironizzare altrimenti una tale inquadratura resterebbe riduttiva a tutto danno del racconto stesso. Ma Sciascia da intellettuale intelligente ha sperimentato con mano certe situazioni e il suo travaglio ideologico e il suo impegno sul piano politico lo hanno portato a fare delle scelte precise contrapponendolo a ciò in cui aveva creduto. Nei confronti di Sciascia ci fu una vera e propria campagna denigratoria. Si vedevano in lui il “disfattista” solo perché diceva ciò che realmente pensava.
Con il PCI ci furono rapporti contraddittori e conflittuali. Ma con onestà alle prime avvisaglie Sciascia si allontanò dal partito e da quella politica. Addirittura Sciascia e Berlinguer ebbero una dura polemica che finì in querele. Sia dalle colonne del l’”Unità” sia dalla colone de “la Repubblica” vennero lanciati degli insulti nei confronti di Sciascia soprattutto dopo la pubblicazione di “L’affare Moro”.
Con “Il giorno della civetta” siamo nel 1961. Passeranno pochi anni e Sciascia disegnerà altri spaccati con un’altra consapevolezza e nuovi aspetti. “Candido” resta certamente un libro della consapevolezza sul quale si dovrà meditare in quanto la tavola dei significati e delle offerte è abbastanza eterogenea. Ma è in “Il giorno della civetta” che i personaggi si mostrano già ben definiti e vivono di una loro storia e di un loro ruolo grazie anche ad una metafora che resterà intatta nei lavori successivi.
Di Sciascia, è chiaro, non tutto assurge a letteratura. Il suo insistere sulla tastiera della pagina cronaca molte volte ha creato dei capitoli privi di slancio. Sciascia stesso preferisce raccontare la quotidianità.
La quotidianità nega però l’ironia. C’è ironia quando cessa la descrizione, la forzatura del reale. C’è ironia-metafora quando Sciascia dimentica il peso delle ideologie. D’altronde la sua è stata un’indicazione minimalista. Da questo punto di vista andrebbe riesaminato il lavoro letterario dello scrittore siciliano. Tutto sommato è indubbiamente uno scrittore che va riesaminato ma non c’è, pur tirandola fuori, quella grande ironia che ha contraddistinto Brancati. Brancati è un altro tipo di scrittore, ha altri modelli, ha altri riferimenti. C’è un’altra pagina nei suoi libri. Anche la donna. In Brancati è passione. In Sciascia la donna c’è ma non è la stessa di Brancati. Forse è anche più aggressiva ma non è passione.
“Il giorno della civetta” resta un racconto del quotidiano. Ma bisognerebbe andare al di dà della schematizzazione in cui Sciascia si è andato a ficcare. Perché oltre la sclerotizzazione ideologica alcune pagine sarebbero da rivedere.
Non c’è dubbio. I racconti di Sciascia sono dei buoni racconti. Ma non vanno oltre. Ci sono i personaggi. Ci sono sintomi caratteriali. Ma per tentare di capire occorrerebbe anteporre a Sciascia il già citato Brancati. In Brancati la cronaca è sempre superamento. Brancati attraversa la cronaca per recuperare l’ironia e il senso che questa ironia ha nel corpo e nel cuore dei personaggi. Sciascia non supera la cronaca. È lo scrittore che fa cronaca perché nella cronaca realizza il suo modello di scrittura. Per rivisitarlo si sono cercate alcune pagine, quelle meno consumate, quelle che hanno una attinenza maggiore con il respiro ironico e con la metafora. Altrimenti se Sciascia lo si considera lo scrittore che ha denunciato la connivenza tra mafia e politica, la funzione letteraria cessa e resta il cornista che non nulla a che vedere con l’ironia della pagina e con la letteratura che possa durare.
Allora un discorso andrebbe fatto. Si preferisce lo Sciascia cronista o si dovrà fare in modo di recuperare e rileggere quelle pagine che contengono un respiro diverso? È certo che si tratta di una operazione difficile e complessa, ma forse con il tempo e con una rivisitazione generale della letteratura contemporanea molte cose si chiariranno.
In “Il giorno della civetta” si legge: “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più sole né luna, c’è la verità”.
Questa intelligente e schietta osservazione ci introduce come di schianto in “A ciascuno il suo”. È ancora una volta un racconto di paese. Il paese è al centro della storia. più che in ogni altro racconto qui il paese fa da protagonista. Ed ha coscienza e cuore. Ha personaggi che sono costantemente in movimento. Tra i personaggi si agita un binomio: vita e morte. Tra vita e morte si consumano le diatribe, gli inganni, le finzioni di un paese che alla fine racconta la sua verità.
Il farmacista del paese riceve una lettera in cui lo si minaccia di morte. Durante una campagna di caccia la minaccia si avvera. Il farmacista viene ucciso e viene ucciso anche il dottore, suo amico, che si trova con lui. Comincia così l’inchiesta che no approda a nulla. Un professore di Lettere per conto suo svolge un’indagine. Arrivato al bandolo della matassa viene rapito e si può immaginare la sua fine. L’intreccio è tra il giallo e il passionale. C’è di mezzo l’amore, ma c’è di mezzo anche la mafia e la politica.
I personaggi femminili in “A ciascuno il suo” rivestono un loro ruolo ben preciso. Così come in “Il giorno della civetta”. Così come vedremo in “Candido”. In “Il giorno della civetta”la vedova Nicolosi è sicuramente una chiave interpretativa da riconsiderare sia come personaggio tout court che come personaggio che rivela una profonda sicilianità. In “A ciascuno il suo” i personaggi femminili costituiscono l’anima del racconto stesso. Si pensi alla mamma del professore di Lettere. Si pensi alla moglie del farmacista. Si pensi alla moglie del dottore che è il polo intorno al quale gli avvenimenti giungono al tragico epilogo. Si pensi ancora alla ragazza che si reca in farmacia e viene sospettata di mantenere una relazione con il farmacista. Si pensi al dialogo tra il professore di Lettere e il padre del dottore ucciso insieme la farmacista. Riferendosi alla nuova il padre del dottore dice: “… mia nuora è molto bella, no?” – “ O forse molto donna, di quelle che quando io ero giovane si dicevano da letto – con distacco da intenditore, quasi no parlasse della moglie di suo figlio, ora morto, e muovendo le mani a disegnare il corpo disteso. – Credo che questa espressione non si usi più, la donna è caduta dal mistero dell’alcova e da quello dell’anima. E sa che penso? Che la Chiesa cattolica stia registrando oggi il suo più grande trionfo: l’uomo odia finalmente la donna. Non c’era riuscita nemmeno nei secoli più grevi, più oscuri. C’è riuscita oggi. E forse un teologo direbbe che è stata un’astuzia della Provvidenza: l’uomo credeva, anche in fatto di erotismo, di correre sulla via maestra della libertà; e invece è finito in fondo al’antico sacco”.
La risposta del professore recita così: “Sì, forse… Benché mi pare che mia come oggi, nel mondo diciamo cristiano, il corpo della donna sia stato così esaltato, così esposto; e la stessa funzione di richiamo, di fascino, che la pubblicità commerciale assegna alla donna…”.
C’è ancora la replica del padre del dottore: “Lei ha detto una parola che contiene, in definitiva, l’essenza della questione: esposto, il corpo della donna è esposto. Esposto come un tempo restavano esposti gli impiccati… Giustizia è stata fatta, insomma…”.
Anche questi dialoghi costituiscono la forza del racconto. Si ritorna al discorso fatto precedentemente. Nei racconti di Sciascia c’è tutto un mondo da catturare da interpretare. La Sicilia allora si trova anche in questi dialoghi e nella tensione che si registra tra il professore e il padre del dottore.
I personaggi femminili giocano una loro funzione e così le donne. Non è condivisibile l’opinione di Gesualdo Bufalino quando sostiene che “Nelle opere di Sciascia la donna è quasi assente o sullo sfondo”. In “A ciascuno il suo” invece il racconto è costruito su figure femminili. D’altronde la morte stessa del dottore è da circoscrivere in questo contesto. La moglie del dottore ha un amante, il cugino, e il marito è di ostacolo. L’adulterio vive in questa storia come vive in “Candido”. Ma non c’è passione, comunque. E la donna, come in “Candido”, costituisce il personaggio centrale soprattutto se si dà al racconto un’interpretazione meno consumata e più ricca di connotati sentimentali. Nei racconti di Sciascia non si deve cesellare soltanto il razionale dando prevalenza alla ragione. Ci sono altre sottolineature da fare. Il dato romantico per esempio. La moglie del dottore in fondo tradisce perché non è più innamorata del marito, perché ha sempre amato il cugine, perché con il cugino ha sonato di costruire una vita insieme e solo per futili motivi si sono dovuti allontanare. Queste valutazioni sono da tenere presenti. Non si può raccontare il tutto come un fatto di cronaca o racchiudere queste vicende nel marginale. La mafia certamente, la politica, il solito intreccio ironico tra comunisti da una parte e cattolici mafiosi dall’altra. Insomma cosa che abbiamo già letto e ingoiato, ma questi adulteri, come in “Candido”, come considerarli?
Tra l’ironico e il faceto il punto è così spiegato: “.. Qui, in questa terra della gelosia e dell’onore, si trovano i più perfetti esemplari di cornuti… E poi il fatto è che il povero dottore era innamorato pazzo della moglie”.
Una storia similare si consuma tra l’avvocato Munafò e Maria Grazia in Candido. Un adulterio. Un suicidio. Una parvenza di cattolicesimo. Il comunismo di Candido e di don Antonio, Francesca.
L’incontro di Candido con la madre avvenuto a Parigi. E nuovamente politici in odore di mafia.
Anche in “Candido” la donna occupa lo scenario. Prima la madre. Poi Concetta che si occupa dell’educazione di Candido. Paola. Francesca. C’è un itinerario che è già una indicazione.
La donna costituisce una forza vitale. L’assenza di Paola fa precipitare nella noia Candido. “Senza Paola, il tempo era per Candido fermo e dura come un macigno, sera era come contratto e conficcato nel presente: e a tentare di rivoltarlo, non sarebbe apparso che il passato. C’era il lavoro, c’erano i libri, c’erano le conversazioni con don Antonio: ma tutto era ripetizione, noia, pena”.
Questa forza vitale che è a donna aiuta il racconto stesso. Sciascia scrive delle pagine esemplari proprio quando ci sono alcune riaffermazioni che riguardano l’amore o la donna. Per esempio i capitoli in cui si parla dei viaggi di Candido e Francesca (il soggiorno a Torino e i viaggi a Parigi e la decisione di stabilirvisi) sono delle parti che condensano una ricchezza di immagini e anche di pensiero. Candido e Francesca si ritrovano proprio nell’amore e nell’amore Candido si ritrova e ritrova l’armonia dopo l’inquietudine degli anni dell’ideologia. Una nuova speranza è nel cuore di Candido e Francesca. Candido alla fine si sente felice. Ma cosa è questa felicità? Non è forse il superamento dell’inquietudine e il ritrovarsi con Francesca lontano da ciò in cui aveva creduto e lontano da quell’illusione di cui si era tanto nutrito e vantato?
Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia conserva delle belle pagine. C’è certamente dentro il migliore Sciascia. Sciascia ironico. Sciascia pungente, Sciascia lucido, Sciascia romantico e sentimentale, Sciascia allegorico, Sciascia che ha capito l’illusione delle ideologie. C’ una pagina di grande stile che custodisce il segreto di questo libro. Eccola: “Vedi – diceva don Antonio – le donne appartengono al mio passato di prete. Per amarle veramente, o per amarne una, io dovrei liberarmi di quel passato. È stata una lunga malattia; ed ora sono in convalescenza. È facile far credere uno dopo l’altro, come nel baraccone del tiro a bersaglio, tutti i dogmi, i simulacri e i simboli che sono stati parte della tua vita… Ma tutti quei dogmi, quei simulacri, quei simboli che tu credi di avere abbattuto, vanno a raccogliersi e nascondersi nel corpo della donna, nell’idea dell’amore o semplicemente nel fare all’amore. Mi sento talmente nella verità, in ogni cosa, in ogni pensiero, che a momenti mi pare di aver valicato la soglia del segreto, del mistero: e cioè che non c’è segreto, non c’è mistero; che tutto è semplice, dentro e fuori di noi. Ma amare o fare all’amore in questa semplicità, o sul confine, credo non mi sarebbe possibile né mi piacerebbe. E per quanto si corra nella libertà, credo che in questo la Chiesa, le Chiese, quelle che ci sono, quelle che verranno, avranno la meglio. Tra le lettere di San Paolo e il “De l’amour” di Stendhal il discorso corre sullo stesso filo di fuoco: l’inferno dell’altro mondo, l’inferno di questo; ed è un discorso bellissimo”.
Riflettere su queste considerazioni è aprire un nuovo modello di confronto con Sciascia. Tra l’amore di candido e Francesca corrono paesi e corre il ricordo. La Sicilia abbandonata non diventa rimorso.
In entrambi c’è la consapevolezza dell’appartenenza ad una terra ma c’è anche il sentimento della distanza. Candido e Francesca sono usciti fuori da un mondo per ritrovarsi e per vivere l’amore. e in questo amore c’è il segno di una antica speranza. Alla fine Candido “Si sentiva figlio della fortuna”.
E allora il pessimismo di Sciascia dove è possibile trovarlo?
Il pessimismo di Sciascia non è una giustificazione. Ci sono pagine dei suoi libri che rivelano questo aspetto. Non può essere negato. Ma Sciascia lo spiega. In una battuta in “A ciascuno il suo” si legge: “Stiamo affondando, amico mio, stiamo affondando… Questa specie di nave corsara che è stata la Sicilia, col suo bel gattopardo che rampa a prua, coi colori di Guttuso nel suo gran pavese, coi suoi più decorativi pezzi da novanta cui i politici hanno delegato l’onore del sacrificio, coi suoi scrittori impegnati, coi suoi Malavoglia, coi suoi Percolla, coi suoi loici cornuti, coi suoi folli, coi suoi demoni meridiani e notturni, con le sue arance, il suo zolfo e i suoi cadevi nella stiva: affonda, amico mio, affonda…”.
È indubbiamente un pessimismo con il quale ci si imbatte e ci si resta incollati totalmente. Ma non è Sciascia ad essere pessimista. Egli stesso a chi gli rimproverava di essere pessimista rispondeva con molta calma ed eleganza dicendo: “Non è vero. Piuttosto è la realtà ad essere pessima” (Walter Vecellio, “Il Sabato” del 30 dicembre 1989).
Con questa realtà Sciascia ha dovuto fare i conti frequentemente. Ha dovuto scontrarsi con questa realtà. Si pensi al caso Majorana. Si pensi al caso Moro. “L’affaire Moro” è un libro che condensa pietà e dolore. La morte di Moro è ricostruita attraverso u parametro che ha nel suo fondo una dimensione umana robusta. Sciascia parla di Moro uomo e riporta in luce le lettere indirizzate a uomini politici e alla moglie.
Le prime quattro pagine sono pagine fornite di una corazza sentimentale e stilistica che si addice a scrittori che hanno raggiunto uno spesso di conoscenza non indifferente. La partita, Sciascia, la gioca contro gli “uomini della fermezza”. Contro i comunisti e contro i democristiani. I quali si sono opposti al ricatto dei brigatisti. E in questo saggio-racconto tutto viene decifrato. Con fermezza Sciascia sostiene: “Il punto di consistenza del dramma, la ragione per cui a Moro si deve in riconoscimento (in ‘riconoscenza’) la morte sta appunto in questo: che è stato l’artefice del ritorno, dopo trent’anni, del Partito Comunista nella maggioranza di governo. E le Brigate rosse non solo gliene fanno esplicita imputazione nei loro comunicati, ma ne danno con funebre ardimento la solenne e simbolica rappresentazione facendo ritrovare il suo corpo tra via delle Botteghe Oscure dove ha sede la Democrazia Cristiana (la forza dei nomi: le botteghe oscure, il Gesù dei gesuiti; e non so se la via Caetani, dove il corpo di Moro è stato portato, ha nome dalla famiglia cui appartenne Bonifacio VIII, o dell’arabista: e va bene nell’uomo o nell’altro caso)”.
Ci si pone l’interrogativo: perché Moro non è stato salvato? Sciascia pone in frontespizio un concetto di E. Canetti che dice: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”.
Questo libro sollevò pesantissime polemiche. Sciascia considerava le lettere di Moro autentiche sin dall’inizio. Allora tutti li ritenevano false. Sciascia fu attaccato da tutti i versanti. Si crearono degli schieramenti e Sciascia fu tra quelli che cercarono di strappare Moro ai brigatisti.
“L’affaire Moro” ancora oggi ripropone un capitolo drammatico della nostra storia, ma è affrontato con lucidità e umanità. Un capitolo di storia ma anche un capitolo in cui l’uomo si dibatte tra il mistero e la verità alla ricerca di una speranza antica.
Il 1988 pubblica, come si è detto, “Il cavaliere e la morte”. Un libro in cui affiora una malinconia profonda. È sempre una malinconia legata a una angoscia che non stanca. La morte come cara compagna che segue ogni processo esistenziale e riposa nelle pieghe dei giorni per esplodere nel giorno deciso. La metafora non è più la morte. Ormai ogni metafora scompare e resta la certezza di essere presenti a se stessi. Anche la morte è la presenza che cattura. Un libro che sembra un testamento. E si legge appunto come un testamento. È la testimonianza che si dichiara e si impossessa di tutto ciò che è stato. Il cavaliere e la morte conducono la loro battaglia. Tra la vittoria e la sconfitta l’uomo si ritrova con il suo tempo e la sua storia accartocciati in una memoria che continua a raccontare.
Tra gli ultimi suoi libri è da ricordare il racconto dal titolo “Una storia semplice”. Un diplomatico in pensione viene trovato morto nella sua villa. Si pensa subito al suicidio. Ma c’è un colonnello dei carabinieri che appoggia l’ipotesi dell’omicidio. Si snocciolano diverse vicende. Altri omicidi sullo scenario. Conflitti tra polizia e carabinieri. Ancora una volta è il racconto breve che cattura immediatamente. Fa da sfondo con tocchi che arricchiscono la curiosità la figura di Pirandello.
Dubbi, intrecci, moventi occupano il resto. Il racconto si muove tra i personaggi che rappresentano, come in tutti i lavori precedenti, un destino che segna la trama del racconto stesso. L’Italia degli ultimi anni affiora e Sciascia la incapsula con energia raffigurandola con particolare incisività. Si tratta di un racconto breve, ma ben condensato e ben sviluppato.
Parlando di questo racconto Sciascia disse: “Di quest’ultimo racconto ci sarebbe da fare un racconto. Me lo sono raccontato per mesi: è stato un modo di sopravvivere allo strazio della malattia e delle cure, quasi in doloroso dormiveglia. Posso dire di averlo mentalmente scritto pagina per pagina: e sarebbero state circa trecento. Ma appena ho trovato quel poco di energia che mi ha permesso materialmente di scriverlo, sono venute fuori una cinquantina di pagine: e mi pare di non aver lasciato fuori nulla di tutto quel che avevo mentalmente scritto nelle trecento. Il romanzo è diventano apologo: ma è meglio così. Per me certamente, per i lettori lo spero”. (Benedetta Craveri, “La Repubblica” 28 ott. ’89).
In “Una storia semplice” ci sono tutti i temi del viaggio narrativo e umano che hanno contraddistinto e caratterizzato Sciascia. C’è una scrittura di una chiarezza estrema. Si legge senza sottolinearlo e senza rileggerlo. E si assorbe subito. Come “Il cavaliere e la morte” c’è un velo sottile di malinconia.
In questa malinconia c’è anche la sua sicilianità. La sua sicilianità resta uno “stato d’animo”. Ma resta anche la coscienza di una appartenenza attraverso la quale il bene e il male, la storia e il tempo freneticamente si scontrano e si incontrano, dialogano e stanno in conflitto. Ma ci sono. Così come c’è la terra, la Sicilia, e il sentimento dell’appartenenza.
È la terra dei Gattopardi, dei Brancati, dei Quasimodo, dei Pirandello. È la terra in cui il mutamento è restare fedeli. A conclusione degli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel si legge: “I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da ‘atti relativi’ diventano, per così dire, ‘atti assoluti’. Come diceva quel poliziotto di Grahm Green: ‘Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali se possono pubblicare’. Anche noi, tutto sommato”.
E si ritorna sempre, come un luogo da cui si parte perché è qui che bisogna tornare, alla metafora.
Nella metafora: perché è nella metafora che si ritrova il mistero-enigma-sospetto. È nel mistero si ritrova il viaggio d’identità, il ritorno. Ma purtroppo c’è anche la cronaca. Sciascia si è troppo calato nella cronaca.
C’è una frase di Pascal che Sciascia pone come frontespizio a “Dalle parti degli infedeli” del 1979 che dice: “Il servo non sa quel che fa il suo padrone, poiché questi gli dice soltanto dell’azione, non del fine da raggiungere; e perciò vi si assoggetta servilmente e spesso peccando contro il fine. Ma Gesù Cristo ci ha insegnato il fine. E voi lo distruggete”. È qui che si conclude questo incontro con Leonardo Sciascia. È certo che occorre rileggerlo ma occorre anche una nuova interpretazione.
Nei suoi libri ci sono precisi riferimenti. Pagine di commenti, indicazioni e suggerimenti. Il primo Sciascia è diverso dall’ultimo. Nei primi libri la forzatura ideologica, in alcune pagine, sembra addirittura una montatura. Ma scorrendo il resto ci si accorge come quelle pagine possono restare isolate. Ma mano che si va avanti si comprende come la forzatura ideologica si fa più dilatata.
Subentra una maggiore consapevolezza ma subentra anche una maggiore esperienza a contatto con quella ideologia alle quali Sciascia sentiva di appartenere.
“Candido” è un libro che non nasconde, ma rivela con coraggio ridicolizzando quel partito al quale Candido era legato. Ma la di dà di questo c’è lo scrittore che si abbandona e traccia pagine testimonianza. Il paese, i personaggi, la donna, l’amore. ecco potremmo rileggerlo attraverso queste indicazioni. E in ultimo la morte. “Il cavaliere e la morte” è la malinconia che cerca la metafora, ma è anche la malinconia che chiede di durare.
La vita e la morte. O forse altro? I personaggi non sono pezzetti del mosaico. Ormai sono il mosaico.
Con le sue tinte e le sue voci. Ecco. I personaggi di Sciascia sono le voci. Le voci che lo hanno accompagnato lungo il suo cammino. E restano come voci a parlarci. E ogni parola chiede una pausa e una meditazione. Ma in Sciascia c’è l’attesa. Basti pensare a gran parte dei personaggi. Sono personaggi dell’attesa. Anche il mafioso. Si pensi a don Mariano. Si pensi anche al capitano Bellodi.
Si pensi al commissario di polizia in “Una storia semplice”. E questa attesa è forse la riconversione della malinconia. Ma la vita e la morte, senza angoscia e senza disperazione, disegnano l’inquietudine.
Sciascia con i suoi racconti e con le sue pagine di prosa (non solo su Pirandello) ha reagito, soprattutto negli ultimi anni, a un conformismo dilagante che ha ormai invaso e occupato la storia di questo Paese.
Certo. Va riletto. Ma va anche interpretato diversamente.
Si è parlato di mistero e di attesa. Ma occorre chiarire questo discorso. Il mistero e l’attesa non sono un fatto religioso in Sciascia. Il mistero e l’attesa sono semplicemente due modi per chiarire o per parlare degli enigma che hanno travagliato la realtà di questo Paese, nel quale Sciascia ha calato le sue storie e i suoi personaggi. Niente di particolare e niente di trasversale. In Sciascia tutto sommato no si sono agitati grandi temi esistenziali o religiosi. Tutto ciò che è approdato sulle pagine e nei libri di Sciascia è venuto fuori dalla cronaca. La rappresentazione del quotidiano: questo interessava Sciascia. Portare sulla pagina il fatto e raccontare il fatto hanno costituito per Sciascia un modello di comunicazione.
Il discorso che in questi anni Sciascia ha portato avanti nei confronti di un modello letterario tutto costruito sulla cronaca non ha d’altronde, così sembra, giovato alla sua resa letteraria. Un libro può essere un buon libro indubbiamente, ma i risultati, se si parla di racconto o di romanzo, devono avere una loro verifica. E la verifica la si ha sul piano della resa. Il problema, in tal senso, non è Sciascia ma è un modello di letteratura. Temi, contorni, riferimenti, metafore ci sono in Sciascia. C’è pure il sogno. Ma a questo attraversamento si è fatto prevalere la cronaca come rappresentazione di una vicenda, come descrizione, come indicazione anche di lettura. La cronaca va letta, ma ciò che resta, alla fine, non è la cronaca, ma la letteratura.
Non vuole essere, questa, una conclusione riduttiva dopo aver parlato e accettato gli scritti di Sciascia e non vuole essere una contraddizione con ciò che si è detto prima. Vuole essere soltanto un modello di approccio che dovrà spingerci ad una reale verifica. Non possono essere accolte certe proposte che Sciascia fa sul piano della letteratura perché non si crede ad una letteratura-cronaca. Ma Sciascia indubbiamente resta un testimone, un testimone interessante e intelligente, di questi nostri anni. Ha scritto dei libri sui quali si è discusso, si è dibattuto, si è meditato. Ma la letteratura resta un mistero non un ragionamento e la parola è sempre grazia e non un calcolo. Forse è proprio quei la distinzione tra la cronaca e la fantasia. Forse è proprio qui la distinzione tra Brancati e Sciascia. Anche l’ironia è qualcosa che non si costruisce perché è nel mistero che accompagna la scrittura. Mentre la denuncia non è nell’ironia ma è nella quotidianità che chiede di esprimersi. E Sciascia alla cronaca e alla denuncia si è affidato. Forse per testimoniarsi o forse perché la fantasia è sempre oltre la cronaca (o oltre la realtà).
di Pierfranco Bruni
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