Agnese Moro e Carmelo Musumeci insegnano a non chinare il capo di fronte all'odio. Il male non vince
MONTESOLARO - Venerdì 12 ottobre nella parrocchia della Beata Vergine Assunta di Montesolaro (Como), è avvenuto un incontro dibattito. Davanti alle panche della chiesa al completo c'erano: Carmelo Musumeci, ergastolano. Agnese Moro, giornalista, figlia di Aldo Moro. Sr. M. Grazia Colombo Op, monaca domenicana. Nadia Bizzotto, responsabile della struttura di accoglienza “Il sogno di Maria” della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. L'incontro è stato moderato da Fabio Arnaboldi.
Da anni conosco e collaboro con Carmelo, ergastolano ostativo, impegnata al suo fianco nella battaglia contro questo modello di segregazione, sconosciuto ai più. Carmelo, alla fine, è riuscito a ottenere prima dei permessi premio, quindi due anni di semilibertà, ed ora ha davanti ancora cinque anni di libertà condizionale. Tutto questo è avvenuto dopo circa venticinque anni di carcere.
Prima del dibattito vero e proprio il coro Wojtyla ha cantato “Vita” di Dalla e Morandi. Una canzone che ha molte frasi che fanno davvero al caso di quanto sentito quella sera.
Arnaboldi ha iniziato esordendo con: “Cosa sentiremo questa sera, o meglio: cosa ascolteremo. Per uscire da qui non dico migliori, ma diversi, migliorati”.
Ritengo che il buon esempio sia sempre l'arma più efficace per dimostrare alle persone quanto si va dicendo e poter penetrare il loro muro di paure e pregiudizi.
Ed ecco perché, quattro persone con percorsi di vita differenti, sono lì, davanti a noi, pronte a mettersi a nudo per mostrarci come le loro esistenze si siano intrecciate.
Carmelo inizia con: “Un sorriso a tutti”. E questo mi ricorda quando, alla fine delle lettere che mi scriveva dal carcere, non mancava mai il suo: “Un sorriso dalle sbarre”.
Non deve essere facile per lui parlare della sua vita, di quanto ha commesso, degli anni di prigione.
Ma lo fa, lo fa con convinzione e con uno sguardo schietto che mai, nemmeno per un minuto, tentenna nascondendosi. Si sente in colpa, Carmelo, perché lui ce l'ha fatta, ma tanti suoi compagni sono ancora in carcere e potranno uscire da lì solo da morti.
Persone che, come lui, non sono più le stesse di quando sono entrate. Persone che hanno fatto un cammino, che hanno capito, che si sono migliorate. Lui stesso, entrato con la quinta elementare, ha adesso tre lauree. Si è impegnato nello studio per potere scrivere e fare conoscere attraverso i suoi libri, cosa accade nelle carceri italiane.
Nel momento in cui ringrazia me e un altro signore presente, perché siamo stati, assieme a tanti altri, la sua forza per proseguire nella sua battaglia, confesso che mi è salito un nodo in groppo. Io credo che certe azioni si facciano non per ricevere applausi o riconoscimenti, ma solo perché si sa di essere nel giusto. Non ho potuto rispondere la sera stessa, ma da qui posso dire che se qualcuno va ringraziato è proprio Carmelo stesso, per non essersi mai arreso, non aver mai ceduto al nero che a volte lo circondava. L'aver dato modo al suo sorriso di splendere, adesso, libero.
Mi ha colpito sentire Carmelo dire che, in quei venticinque anni in cui è rimasto detenuto, le cose fuori sono cambiate; la gente è diventata cattiva. Ci ha raccontato di un episodio su un treno, di un ragazzo straniero preso a calci perché non aveva il biglietto e della gente che inneggiava chi stava colpendo un poveraccio. In carcere, ci dice, c'è più solidarietà, se manca del caffè o qualcosa a un altro lo si aiuta. Già...
Nadia Bizzotto, ho avuto l'occasione di conoscerla su facebook, finalmente le posso stringere la mano. È davvero come me la immaginavo, ma forse anche un poco più determinata di come l'abbia pensata.
A ventuno anni un brutto incidente stradale le “regala”, come lei stessa dice, la carrozzina. Nadia non si arrende, lavora duro, tanto che diventa amministratrice delegata nell'azienda nella quale lavora.
Ma, a un certo punto, si accorge di sentire una profonda mancanza di valori nella sua vita.
Ecco che tramite varie occasioni incontra Don Benzi, la sua comunità. Si trasferisce e le viene offerta la possibilità di entrare in carcere. Mentre l'ascolto, quando parla delle celle, di come si entra in carcere, delle sensazioni che si provano, di ciò che si porta fuori con noi; mi riconosco e tutto mi ricorda l'esperienza personale che io ho avuto nel 2006 in una casa circondariale e poi ancora, un poco dopo, quando sono potuta entrare anche in un carcere di massima sicurezza.
Credo che non si possa venire a contatto con queste realtà e rimanere indifferenti, non comprendere. Infatti, dalle sue parole, anche a lei è apparsa la pura realtà: “Non c'era nessun mostro, solo persone”.
Ecco che in carcere ha potuto conoscere Carmelo e, da allora, lui la chiama il suo angelo.
Agnese Moro mi ha colpita tantissimo e sono rimasta ad ascoltarla, pensando un “Finalmente”, scritto a lettere cubitali nella mia testa. Già, anche se non è l'unica e ci sono state diverse realtà di persone che, come lei, nonostante abbiano subito una perdita così importante e assoluta, non hanno chinato il capo di fronte all'odio, ma hanno saputo alzare la testa, cercare di capire e perdonare. Tutti conoscono la storia del rapimento di suo padre, Aldo Moro, e di come sia stato ucciso. La Moro spiega: “La parola ergastolo mi offende. Perché credo nella costituzione nella quale c'è il principio di persona, al di là di ogni concetto di fede, provenienza, razza, ecc. Non cura il mio dolore sapere che l'altro verrà punito e soffrirà per sempre”.
Ha voluto incontrare le brigate rosse e le persone implicate nell'uccisione di suo padre. Ha avuto così modo di scoprire che, oltre al suo dolore, c'è anche il dolore dei colpevoli e delle loro famiglie.
Una donna esemplare, coraggiosa, che non posso altro che ammirare. Anche lei s'è poi trovata a lottare contro l'ergastolo ostativo, a fianco di Carmelo.
Termina con una frase stupenda: “La giustizia non è fare del male agli altri, ma scoprire che il male non vincerà mai”.
Suor Maria Grazia si pone con una dolcezza infinita. L'ascolto parlare e mi strappa più volte un sorriso, suscita solo pensieri buoni! Molto semplicemente ci spiega della sua “chiamata”, preceduta da un fatto particolare: andava ancora a scuola e, il professore, un giorno in classe parla loro del rapimento di Aldo Moro, appena avvenuto. Lei ci parla di un cuore diviso a metà; posso comprenderla bene, più volte è accaduto anche a me: da una parte la sofferenza per la vittima, la sua famiglia. Dall'altra, il dolore per chi sta causando questo male.
Una volta divenuta suora ha dedicato alla sua vita ai detenuti. A persone che hanno commesso crimini terribili; ricordando bene che l'essere umano non è il proprio errore.
Le sue difficoltà, all'inizio, quando non trovava le parole adatte da dire di fronte a chi aveva ucciso, magari più volte, come ad esempio la prima persona che aveva incontrato e che aveva assassinato due donne. Per scoprire che a volte non servono parole, ma basta uno sguardo, perché gli occhi non mentono, esprimono quanto abbiamo dentro di noi.
Anche lei ha incrociato la sua strada con quella di Carmelo, tanto che ha pregato che per il suo venticinquesimo di monacato lui fosse libero. Questa volta la preghiera è stata ascoltata.
Tutte le persone presenti alla serata, nonostante sia durata due ore e più, non si sentivano nemmeno respirare! Tutti attenti ad ascoltare, spero, anziché solo sentire.
Per me è stato davvero un dono vedere intorno a me tanta gente che fosse venuta, forse anche solo per curiosità, ma che poi abbia saputo cogliere e fare tesoro di quanto esposto. Non è stata una serata fine a se stessa, si è parlato di vita, vita vera, sofferta. Sul piatto ognuno di loro ha messo quanto di più caro e onesto e sentito.
Vorrei chiudere con una frase rubata dalla canzone “Vita”: Anche gli angeli, capita a volte sai si sporcano, ma la sofferenza tocca il limite e così cancella tutto, e rinasce un fiore sopra un fatto brutto”.
Prima del dibattito vero e proprio il coro Wojtyla ha cantato “Vita” di Dalla e Morandi. Una canzone che ha molte frasi che fanno davvero al caso di quanto sentito quella sera.
Arnaboldi ha iniziato esordendo con: “Cosa sentiremo questa sera, o meglio: cosa ascolteremo. Per uscire da qui non dico migliori, ma diversi, migliorati”.
Ritengo che il buon esempio sia sempre l'arma più efficace per dimostrare alle persone quanto si va dicendo e poter penetrare il loro muro di paure e pregiudizi.
Ed ecco perché, quattro persone con percorsi di vita differenti, sono lì, davanti a noi, pronte a mettersi a nudo per mostrarci come le loro esistenze si siano intrecciate.
Carmelo inizia con: “Un sorriso a tutti”. E questo mi ricorda quando, alla fine delle lettere che mi scriveva dal carcere, non mancava mai il suo: “Un sorriso dalle sbarre”.
Non deve essere facile per lui parlare della sua vita, di quanto ha commesso, degli anni di prigione.
Ma lo fa, lo fa con convinzione e con uno sguardo schietto che mai, nemmeno per un minuto, tentenna nascondendosi. Si sente in colpa, Carmelo, perché lui ce l'ha fatta, ma tanti suoi compagni sono ancora in carcere e potranno uscire da lì solo da morti.
Persone che, come lui, non sono più le stesse di quando sono entrate. Persone che hanno fatto un cammino, che hanno capito, che si sono migliorate. Lui stesso, entrato con la quinta elementare, ha adesso tre lauree. Si è impegnato nello studio per potere scrivere e fare conoscere attraverso i suoi libri, cosa accade nelle carceri italiane.
Nel momento in cui ringrazia me e un altro signore presente, perché siamo stati, assieme a tanti altri, la sua forza per proseguire nella sua battaglia, confesso che mi è salito un nodo in groppo. Io credo che certe azioni si facciano non per ricevere applausi o riconoscimenti, ma solo perché si sa di essere nel giusto. Non ho potuto rispondere la sera stessa, ma da qui posso dire che se qualcuno va ringraziato è proprio Carmelo stesso, per non essersi mai arreso, non aver mai ceduto al nero che a volte lo circondava. L'aver dato modo al suo sorriso di splendere, adesso, libero.
Mi ha colpito sentire Carmelo dire che, in quei venticinque anni in cui è rimasto detenuto, le cose fuori sono cambiate; la gente è diventata cattiva. Ci ha raccontato di un episodio su un treno, di un ragazzo straniero preso a calci perché non aveva il biglietto e della gente che inneggiava chi stava colpendo un poveraccio. In carcere, ci dice, c'è più solidarietà, se manca del caffè o qualcosa a un altro lo si aiuta. Già...
Nadia Bizzotto, ho avuto l'occasione di conoscerla su facebook, finalmente le posso stringere la mano. È davvero come me la immaginavo, ma forse anche un poco più determinata di come l'abbia pensata.
A ventuno anni un brutto incidente stradale le “regala”, come lei stessa dice, la carrozzina. Nadia non si arrende, lavora duro, tanto che diventa amministratrice delegata nell'azienda nella quale lavora.
Ma, a un certo punto, si accorge di sentire una profonda mancanza di valori nella sua vita.
Ecco che tramite varie occasioni incontra Don Benzi, la sua comunità. Si trasferisce e le viene offerta la possibilità di entrare in carcere. Mentre l'ascolto, quando parla delle celle, di come si entra in carcere, delle sensazioni che si provano, di ciò che si porta fuori con noi; mi riconosco e tutto mi ricorda l'esperienza personale che io ho avuto nel 2006 in una casa circondariale e poi ancora, un poco dopo, quando sono potuta entrare anche in un carcere di massima sicurezza.
Credo che non si possa venire a contatto con queste realtà e rimanere indifferenti, non comprendere. Infatti, dalle sue parole, anche a lei è apparsa la pura realtà: “Non c'era nessun mostro, solo persone”.
Ecco che in carcere ha potuto conoscere Carmelo e, da allora, lui la chiama il suo angelo.
Agnese Moro mi ha colpita tantissimo e sono rimasta ad ascoltarla, pensando un “Finalmente”, scritto a lettere cubitali nella mia testa. Già, anche se non è l'unica e ci sono state diverse realtà di persone che, come lei, nonostante abbiano subito una perdita così importante e assoluta, non hanno chinato il capo di fronte all'odio, ma hanno saputo alzare la testa, cercare di capire e perdonare. Tutti conoscono la storia del rapimento di suo padre, Aldo Moro, e di come sia stato ucciso. La Moro spiega: “La parola ergastolo mi offende. Perché credo nella costituzione nella quale c'è il principio di persona, al di là di ogni concetto di fede, provenienza, razza, ecc. Non cura il mio dolore sapere che l'altro verrà punito e soffrirà per sempre”.
Ha voluto incontrare le brigate rosse e le persone implicate nell'uccisione di suo padre. Ha avuto così modo di scoprire che, oltre al suo dolore, c'è anche il dolore dei colpevoli e delle loro famiglie.
Una donna esemplare, coraggiosa, che non posso altro che ammirare. Anche lei s'è poi trovata a lottare contro l'ergastolo ostativo, a fianco di Carmelo.
Termina con una frase stupenda: “La giustizia non è fare del male agli altri, ma scoprire che il male non vincerà mai”.
Suor Maria Grazia si pone con una dolcezza infinita. L'ascolto parlare e mi strappa più volte un sorriso, suscita solo pensieri buoni! Molto semplicemente ci spiega della sua “chiamata”, preceduta da un fatto particolare: andava ancora a scuola e, il professore, un giorno in classe parla loro del rapimento di Aldo Moro, appena avvenuto. Lei ci parla di un cuore diviso a metà; posso comprenderla bene, più volte è accaduto anche a me: da una parte la sofferenza per la vittima, la sua famiglia. Dall'altra, il dolore per chi sta causando questo male.
Una volta divenuta suora ha dedicato alla sua vita ai detenuti. A persone che hanno commesso crimini terribili; ricordando bene che l'essere umano non è il proprio errore.
Le sue difficoltà, all'inizio, quando non trovava le parole adatte da dire di fronte a chi aveva ucciso, magari più volte, come ad esempio la prima persona che aveva incontrato e che aveva assassinato due donne. Per scoprire che a volte non servono parole, ma basta uno sguardo, perché gli occhi non mentono, esprimono quanto abbiamo dentro di noi.
Anche lei ha incrociato la sua strada con quella di Carmelo, tanto che ha pregato che per il suo venticinquesimo di monacato lui fosse libero. Questa volta la preghiera è stata ascoltata.
Tutte le persone presenti alla serata, nonostante sia durata due ore e più, non si sentivano nemmeno respirare! Tutti attenti ad ascoltare, spero, anziché solo sentire.
Per me è stato davvero un dono vedere intorno a me tanta gente che fosse venuta, forse anche solo per curiosità, ma che poi abbia saputo cogliere e fare tesoro di quanto esposto. Non è stata una serata fine a se stessa, si è parlato di vita, vita vera, sofferta. Sul piatto ognuno di loro ha messo quanto di più caro e onesto e sentito.
Vorrei chiudere con una frase rubata dalla canzone “Vita”: Anche gli angeli, capita a volte sai si sporcano, ma la sofferenza tocca il limite e così cancella tutto, e rinasce un fiore sopra un fatto brutto”.
di Miriam Ballerini
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