Apollion grecità di Salvatore Quasimodo. Isole metafora nei luoghi, non musealizzabili

ROMA - Nel Mediterraneo di Quasimodo. Il Mediterraneo delle parole e dei linguaggi vive nella lingua del mito di Salvatore Quasimodo. Il Mediterraneo degli incontri imprevedibili tra Ulisse, Cristo e Maometto. Il Mediterraneo ancora degli Orienti (i più Orienti che abbiano nella nostra storia e nelle nostre memorie) e dell’Occidente sono la parola di Quasimodo.

Ma il Mediterraneo che ha un cuore cristiano, musulmano, berbero, ebraico, armeno (intrecciamo religioni e civiltà) greco e Magno–greco la letteratura diventa il meridiano dell’attesa. Non solo il pensiero meridiano disegnato da Albert Camus ma anche quell’orizzonte degli abbracci tra il mare, metafora del tutto, e il deserto (metafora del comunque sempre), ovvero dell’acqua e della terra. La Bibbia ci recita la durezza dello sguardo dei padri del deserto con la dolcezza delle parole e così ci porta, altresì, lungo il cantico che Salomone ha raccolto come i cantici dell’ebbrezza tra le colombe e i danzatori dervisci. Elementi che vivono nel primo Quasimodo.

C’è una poesia nella grecità soffusa che ha un immaginario turco, islamico, berbero come i cavalli del deserto che si dirigono verso le acque dei fiumi o le distese dei mari. C’è una letteratura che non ha inteso mai confrontarsi con la ragione, divieto manifesta di una poetica dello sguardo e del mistero. Il “Capitano Ulisse” di Alberto Savinio ci indirizza verso le isole dell’impossibile che diventano decifrabili ma indefinibili se manca l’amplesso tra Odisseo e Circe.

Un Mediterraneo, dunque, non delle fate ma delle streghe. Una geografia degli incisi nella parola delle metafore percettibili ma mai descrivibili con Quasimodo che al mediterraneo ha dato il senso dei linguaggi. Ma il Mediterraneo è l’immenso mare degli Adriatici, dei Tirreni, dei paesaggi sullo Jonio, dello suardo intenso di Cleopatra e dei fili intrecciati nella Mesopotamia dei segni.

Odisseo cammina tra le grotte della finzione per condurci non chissà dove ma per portarci mano nel vento lungo la comprensione di ciò che il Mediterraneo è stato. Quello che è stato non è. Non possiamo vivere il Mediterraneo dei nostri giorni pensando soltanto ad Omero. Perché, come recita Odisseo Elitis, il ricordo è libertà. “La grecia che con passo sicuro entra nel mare/La Grecia che sempre mi reca in viaggio/Su monti nudi gloriosi di neve”.

Elitis ci recita il canto delle “tessitrici del sole”. Una mediterranea grecità e Calabrò intaglia i suoi versi dalla fisicità greca a quella dei “mercanti di pietra” che hanno la simbologia segnata negli occhi. Questo è Mediterraneo. Ed è il Mediterraneo di Costantino Kavafis che ci fa rivivere l’incanto e il disincanto dei Troiani: “Sono gli sforzi di noi sventurati,/sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani. (…)/Dei nostri giorni piangono memorie, sentimenti./Pianto amaro di Priamo e d’Ecuba su noi”. Un viaggiare nella grecità del Mediterraneo senza perdere l’essenza dello sguardo di Ritsos o di Hikmet sino a toccare la lirica sufi e il mare che ad Ulisse sempre ci conduce.

Perché alla fine tutto ci conduce ad Ulisse? Giorgio Seferis nelle nostalgie che cerchiamo e attutiamo ci sfida: “Il mare: e come è divenuto questo il mare?/Anni indugiai sui monti,/accecato da Lucciole./Ora su questo litorale aspetto/che attracchi un uomo/un relitto, una zattera”. Sino all’Ulisse di Pascoli e a quella figura di Penelope o a Pavese che raccoglie nel mito di Calipso il cammino dell’immortalità. Cosa accetti Odisseo? La vita che è l’amore o l’immortalità? La Calipso di Pavese nel cuore del Mediterraneo di Leucò. E Pascoli nei suoi “Poemi Conviviali” (l’unici testo che di Pascoli oggi resta): “E gli dicea la veneranda moglie:/’Divo Odisseo, mi sembra oggi quel giorno/che ti rividi. Io ti sedea di contro,/qui, nel mio seggio. Stanco eri di mare,/eri, divo Odisseo, sazio di sangue!/Come ora. Muto io ti vedeva al lume/del focolare, fissi gli occhi in giù”.

Ma questo è il Mediterraneo che abbiamo sempre accolto nel nostro pellegrinaggio di voci e di destini. Un pellegrinaggio metafisico che raccoglie, tra l’altro, sia le istanze di Omero, di Virgilio ma soprattutto di San Paolo. Ma la poesia non ha mai confini e non si lascia aggredire dagli orizzonti spersi tra le nuvole.

La poesia ci tocca e toccandoci ci penetra. Penetrare. La poesia è un lento penetrare. Il Mediterraneo non può essere capito se si escludono le parole, le immagini, gli sguardi. E l’amore è nella intensità delle perdute nostalgie.
La grecità di Quasimodo è Apollion. Già, le isole sono una metafora nella fisicità dei luoghi ma non sono musealizzabili.

Il Mediterraneo greco ha la danza delle odalische o delle zingare (come ci canta Franco Battiato) o dei dervisci tra i camini delle fate della Cappadocia. Ma l’amore è l’immenso travolgente luogo dell’esistere nel sottosuolo dell’anima quasimodiana che intriga il fremito dei corpi con la stregoneria che il mare, la donna,il viaggio si portano dentro.

Ed è un Mediterraneo stregato o stregone che raccoglie l’orizzonte e le linee della cristianità con le eresie di Nazhim Abashu, poeta musulmano convertitosi al cristianesimo, che incentra la danza delle sue parole sul senso della croce e poi sprigiona sulla “talassia” del vento le erosioni e il terribile eros: “Se non ci fosse il vento delle maree mediterranee/io sarei rimasto a custodire la sabbia di Tunisi/ma tu, amante mia, porti negli occhi le banderuole de naufragi e della salvezza”.

Cosa è questo Mediterraneo della parola. La parola è sempre un fluttuare di acque nell’anima che è destino di civiltà. “L’Egeo s’è rizzato e mi guarda/-Sei tu? Mi chiede./-Sì, gli rispondo, sono io/insieme ad un altro,/non lo conosci?/ma quest’altro/sei tu!/L’Egeo s’è coricato/il Sole ha tossito/son rimasto solo/del tutto solo”. Mikes Theodorakis in questi suoi versi il gioco delle geografie è sempre più un incastro. Ma è una canzone libera in cui la grecità è nello scavo dei luoghi e del luogo che si porta dentro come una paese del fascino intoccabile.

Chi può mettere una mano su questo mistero? Il mistero è intoccabile e forse è invisibile se non attraverso le emozioni della percezione. Il Mediterraneo delle parole o anche delle etnie che si incontrano nei linguaggi. Ma cosa ci permette di comunicare e di attraversare questa comunicazione? La poesia. Impercettibile come le conchiglie, le foglie, le stelle di Odisseo Elitis. Ma le parole possono essere affidate alla musealizzazione?

Il Mediterraneo delle parole è il “Mediterraneo dei silenzi mai definiti nelle voci” ci dice Abshu e questo Mediterraneo non ha neppure bisogno di memorie perché in ogni parola la dimensione delle immagini non ha stratigrafie di terreni ma palpiti, sensazioni, percezioni.

Il Mediterraneo della poesia è altro dal Mediterraneo dei musei. Le parole non hanno fisicità e non sono oggetto.

Non toccarmi l’anima/tu donna dei Mediterranei perduti/ho già camminato sulla sabbia del tuo deserto/e non ho sguardi da consegnarti/il rumore che ascolti non ha tempo/il suono della cetra ha l’odore dell’incenso/e le stanze che abiti sono paesi di infinito/il Mediterraneo lo porti con te”. È Nazhim Abshu nel teatro dei Mediterranei che includono ad definirsi tra le parole intoccabili, inafferrabili, leggere come il vento che soffia nel fluttuare delle maree. In questo fluttuare le parole inafferrabili sono le parole del mistero avvolgente: da Kavafis a Savinio, da Camus a Quasimodo, da Elitis a Pascoli, da Pavese a Seferis, da Teodorakis ad Abshu.

di Marilena Cavallo

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