Giuseppe Chillemi nella terra d'origine “resuscita” il formaggio Capotempo

CASERTA - C’era una volta il Capotempo. Era un formaggio prelibato che, realizzato con latte vaccino, aveva in sé i sapori odorosi della Terra di Lavoro. Si produceva nella Capua borbonica come scriveva nel terzo volume del suo “Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli”, dedicato a re Ferdinando IV, Lorenzo Giustiniani. Qui si producono «capotempi, borrelli, provole e mozzarelle» giacché, come scriveva qualche anno dopo Andrea Giuffreda nel suo “Viaggi e Memorie”, vi sono «di tratto in tratto opimi pascoli in cui si allevano innumerevoli armenti e bufale».

C’era il Regno di Napoli, poi divenne delle Due Sicilie, poi fu d’Italia. Finì la monarchia, arrivò la repubblica e di quel Capotempo di Capua si perse memoria, e sapore, fino a quando un capuano doc, Giuseppe Chillemi, non lo ha “resuscitato” proprio nella sua terra d’origine, nella nobile Capua. Lo produce Vigne Chigi. Chigi è un nome composto, mette insieme le famiglie Chillemi e Gianfrotta, Giuseppe e Laura, e fu proprio re Carlo, nel 1751, a conferire alla famiglia Gianfrotta il titolo nobiliare.

«Provengo da una famiglia che si è sempre occupata di storia del territorio – spiega Giuseppe Chillemi – e grazie a mio padre, che tra le tante cose mi ha lasciato anche una biblioteca ricchissima, è iniziata questa avventura. Una sera mentre sfogliavo il Dizionario di Giustiniani mi imbattei nella descrizione di Capua e incontrai il Capotempo. Non lo conoscevo, decisi di capire di che cosa si trattava. Scoprii così, tra molte ricerche, che era un formaggio semistagionato a pasta morbida, non filato. Tornò nella mia mente l’adagio di papà che recitava: non vanta cuor cortese chi non ama il suo paese. Amarlo per me è stato anche questo. Recuperare una cultura, una storia, una tradizione».

Un formaggio che rinasce, dopo due secoli, nel nome della tradizione e dell’amore dei luoghi e nel segno dell’educazione familiare che del rispetto del territorio ha fatto il suo vessillo.

«Presa la decisione – continua Chillemi – bisognava trovare un casaro che potesse realizzare il formaggio. E trovai Carmine Bonacci, a Giano Vetusto. Poi, accanto alla parte romantica, è venuto fuori lo spirito imprenditoriale. Così ho registrato il marchio. Ma come legare questo prodotto con la mia azienda agricola che produce soprattutto vino? Abbiamo pensato allora di fare un formaggio ubriacato di vino. La tradizione del nostro territorio ce ne offre diversi esempi, col vino rosso. Noi abbiamo puntato sul bianco, sul nostro Pallagrello. Un vino borbonico legato al Capotempo di Capua, città fortezza dei Borbone».

Il formaggio Capotempo nasce da latte vaccino crudo. Viene utilizzata la coagulazione presamica, cioè il caglio viene aggiunto al latte ad una temperatura di 30-37°C, si procede poi ad una rottura grossolana della cagliata che viene messa in forma e passata poi ad una leggera stufatura. Passati i primi giorni che occorrono alla stabilizzazione del formaggio inizia, e qui la rivisitazione in chiave contemporanea, la spugnatura con Pallagrello bianco di Vigne Chigi; l’incontro tra due eccellenze del territorio finisce sapientemente incartato con pergamena vegetale. Se re Ferdinando avesse potuto assaggiare questa nuova versione del Capotempo di Capua ne sarebbe stato assai contento, lui che amava i cibi prodotti nella sua terra e del Pallagrello fu non solo strenuo sostenitore ma anche attento assaggiatore. Un sommelier d’antan diremmo oggi.

di Nadia Verdile

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