Lorenza Morello parla del fallimento della politica e indica la strada che deve percorrere un Paese civile e moderno
È evidente che ci sia un’aspirazione di democrazia e libertà negata da una politica capitalistica che, pur producendo una grande ricchezza, al tempo stesso, si mostra illiberale al punto da operare la censura e un fortissimo controllo sociale.
Questa, la prima risposta della giurista di impresa e opinionista Lorenza Morello, sull’anno appena terminato e sul corrente 2020.
Dottoressa Morello, faccia comprendere meglio ai lettori...
Qualcosa sta capitando, movimenti differenti, ragioni variegate e plurali, come lo sono le differenti storie delle comunità che manifestano, eppure, come ogni forma di discontento, anche queste hanno a fondamento e sono generate da un profondo senso di frustrazione.
Le piazze si stanno rianimando. Da Hong Kong a Santiago, da Parigi a La Paz, da Barcellona e Bogotá, fino a Bologna, Torino, Mantova e chissà quante altre ancora seguiranno ancora flussi più o meno spontanei come quello delle “madamine” e delle “sardine”.
Ma perché si sente il bisogno della comunità?
A parere mio perché sembra sempre venire meno qualcosa di fondamentale, ovvero la promessa primordiale della “vita in comune”, che ci rende necessario l’essere gruppo e cioè non solo un’assicurazione collettiva contro la cattiva sorte, ma ancora di più, la promessa di un mutuo vantaggio, un beneficio reciproco.
Costituirsi in comunità è la risposta umana alle sfide dell’esistenza. La scelta di darsi regole di rispetto e di reciprocità, di riconoscimento e fiducia, affidabilità e cooperazione, trova fondamento nella prospettiva di poter raggiungere risultati, in termini di benessere, sicurezza e sviluppo, altrimenti fuori dalla portata del singolo. Senza questo cemento la vita in comune sarebbe, nel peggiore dei casi, uno stato di natura hobbesiano dove «non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
Storicamente, quale soluzione abbiamo scelto?
Per avere la possibilità e la necessità di costruire relazioni sociali cooperative, fondate, nel solco della tradizione del liberalismo democratico, ci siamo focalizzati su ciò che John Stuart Mill definisce «la comunità del vantaggio». L’idea secondo cui la vita sociale ed economica si costruisce attorno alla cooperazione finalizzata al reciproco e mutuo vantaggio. Purtroppo, però, questo ha portato ad una strumentalizzazione dei rapporti umani esasperata con un nichilismo ed un utilitarismo evidente che stanno minando profondamente le basi della nostra struttura sociale, a partire dalla famiglia.
L’idea di partenza era buona ma l’abbiamo rovinata nella messa in pratica?
Essenzialmente sì. L’idea di mutuo vantaggio viene declinata ulteriormente in tre principi complementari secondo cui oltre al beneficio reciproco, come principio regolatore della vita associata, si aggiunge la visione del mercato come una rete di transazioni volontarie mutuamente vantaggiose e, infine, il fatto che nell’ambito di queste transazioni cooperative, debba stare al singolo individuo decidere cosa sia, per lui, vantaggioso e cosa no.
Lette su questo sfondo, per esempio, le piazze assumono un colore particolare, quello della delusione e dell’esclusione, del rimpianto e del tradimento. La molla della promessa tradita di un vantaggio comune, magari non equamente distribuito, ma pur sempre un vantaggio per tutti, raggiungibile nell’ambito di una economia di mercato ben regolata e orientata verso l’efficienza. Promessa tradita che parla di esclusione di coloro che non avendo accesso ai vantaggi della crescita e rimanendo nelle code lunghe della distribuzione della ricchezza, si vedono sempre più marginali anche da un punto di vista politico e sociale.
La via per dare risposte vere e credibili a questa profonda domanda di opportunità...
La strada sembra essere esattamente contraria a quella percorsa negli ultimi decenni dalla politica di stampo populista, da Forza Italia, alla Lega, fino al M5S. L’ascolto degli umori degli elettori e la risposta in termini di quei provvedimenti calibrati sulle preferenze della maggioranza di quegli stessi elettori. Questa politica si è dimostrata fondamentalmente inconcludente e perfino dannosa.
Sappiamo che le preferenze degli elettori hanno condotto quelle forze al potere...
Una semplice e radicale spiegazione sta nel fatto che le preferenze degli elettori, semplicemente, non esistono. Non esistono cioè strutture date e stabili di preferenze che, per ogni singolo individuo, determinano ordinamenti su possibili esiti o scenari. Nelle nostre teste non esiste niente di simile a una classifica precostituita su quanto ci piacciono le diverse aliquote fiscali o le diverse ipotesi di regolamentazione della cittadinanza o sui vari gradi di tolleranza religiosa o, ancora, sulle proposte alternative di tutela dell’ambiente.
Tra poco l’Italia sarà di nuovo chiamata al voto, ha qualche previsione?
Si capisce bene che, se ci poniamo nella prospettiva di una politica davvero rispettosa delle persone, di come siamo realmente, e non di come ci piacerebbe che fossimo, una politica, quindi, che tenga conto di come pensiamo, di come decidiamo e di come funzionano, nei fatti, i nostri cervelli, allora l’ascolto del popolo è solo un espediente retorico di bassa lega per mascherare scelte prese altrove, non certo nell’agorà pubblica e democratica. La stessa retorica vuota della democrazia diretta o del popolo che decide.
In questi termini, fare decidere il popolo o gli iscritti alle piattaforme online, significa solo fargli ratificare scelte già prese. Uno standard piuttosto basso per ogni idea di democrazia liberale.
Dottoressa, ci sono dei rimedi?
Direi che ci sono possibili alternative, per fortuna. Alternative che per essere credibili, dovrebbero fondarsi su quattro pilastri: su un approccio contrattualista, sul concetto di responsabilità, sul principio del mutuo vantaggio e sul criterio di opportunità. Se un accordo, che ho volontariamente sottoscritto, che sia attraverso una firma in un contratto, o un voto politico, è in grado di produrre un allargamento del mio spazio delle opportunità, senza, contemporaneamente, determinare la riduzione dello spazio delle opportunità di qualcun altro, allora tale accordo può essere definito mutuamente vantaggioso. Questo principio mette al riparo da facili manipolazioni.
Ma noi cittadini cosa possiamo fare?
Dovremmo aver il coraggio, veramente, di fare decidere ai cittadini, a ogni donna e uomo, qual è la vita che ognuno ritiene degna di essere vissuta. Dovremmo avere il coraggio di rivendicare la necessità che questa possibilità ci venga data. Anzi dovremmo prendercela, tale possibilità, di valutare, attraverso questo criterio, quali siano le politiche che aumentano le opportunità di vivere la vita che ciascuno ritiene degna di vivere: fare o non fare un figlio, accettare o non accettare un lavoro in una fabbrica di armi, vaccinarmi oppure no, scegliere se studiare oppure no, amare chi si vuole amare, ridere o no, conoscere, incontrare, accogliere, perfino sbagliare.
Perché una società dove è possibile scegliere di sbagliare è sempre meglio di una società nella quale qualcuno mi obbliga a non sbagliare. Se non posso sbagliare non posso imparare. Ma di questo bisogna convincere ogni cittadino, in maniera ragionevole e con argomenti veritieri, non con bassi espedienti, gattini, bacioni o altri mezzi da imbonitore di folle. Questo è il ruolo più autentico della politica, di quella politica di cui avrebbe bisogno un paese civile e moderno.
Dottoressa Morello, faccia comprendere meglio ai lettori...
Qualcosa sta capitando, movimenti differenti, ragioni variegate e plurali, come lo sono le differenti storie delle comunità che manifestano, eppure, come ogni forma di discontento, anche queste hanno a fondamento e sono generate da un profondo senso di frustrazione.
Le piazze si stanno rianimando. Da Hong Kong a Santiago, da Parigi a La Paz, da Barcellona e Bogotá, fino a Bologna, Torino, Mantova e chissà quante altre ancora seguiranno ancora flussi più o meno spontanei come quello delle “madamine” e delle “sardine”.
Ma perché si sente il bisogno della comunità?
A parere mio perché sembra sempre venire meno qualcosa di fondamentale, ovvero la promessa primordiale della “vita in comune”, che ci rende necessario l’essere gruppo e cioè non solo un’assicurazione collettiva contro la cattiva sorte, ma ancora di più, la promessa di un mutuo vantaggio, un beneficio reciproco.
Costituirsi in comunità è la risposta umana alle sfide dell’esistenza. La scelta di darsi regole di rispetto e di reciprocità, di riconoscimento e fiducia, affidabilità e cooperazione, trova fondamento nella prospettiva di poter raggiungere risultati, in termini di benessere, sicurezza e sviluppo, altrimenti fuori dalla portata del singolo. Senza questo cemento la vita in comune sarebbe, nel peggiore dei casi, uno stato di natura hobbesiano dove «non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
Storicamente, quale soluzione abbiamo scelto?
Per avere la possibilità e la necessità di costruire relazioni sociali cooperative, fondate, nel solco della tradizione del liberalismo democratico, ci siamo focalizzati su ciò che John Stuart Mill definisce «la comunità del vantaggio». L’idea secondo cui la vita sociale ed economica si costruisce attorno alla cooperazione finalizzata al reciproco e mutuo vantaggio. Purtroppo, però, questo ha portato ad una strumentalizzazione dei rapporti umani esasperata con un nichilismo ed un utilitarismo evidente che stanno minando profondamente le basi della nostra struttura sociale, a partire dalla famiglia.
L’idea di partenza era buona ma l’abbiamo rovinata nella messa in pratica?
Essenzialmente sì. L’idea di mutuo vantaggio viene declinata ulteriormente in tre principi complementari secondo cui oltre al beneficio reciproco, come principio regolatore della vita associata, si aggiunge la visione del mercato come una rete di transazioni volontarie mutuamente vantaggiose e, infine, il fatto che nell’ambito di queste transazioni cooperative, debba stare al singolo individuo decidere cosa sia, per lui, vantaggioso e cosa no.
Lette su questo sfondo, per esempio, le piazze assumono un colore particolare, quello della delusione e dell’esclusione, del rimpianto e del tradimento. La molla della promessa tradita di un vantaggio comune, magari non equamente distribuito, ma pur sempre un vantaggio per tutti, raggiungibile nell’ambito di una economia di mercato ben regolata e orientata verso l’efficienza. Promessa tradita che parla di esclusione di coloro che non avendo accesso ai vantaggi della crescita e rimanendo nelle code lunghe della distribuzione della ricchezza, si vedono sempre più marginali anche da un punto di vista politico e sociale.
La via per dare risposte vere e credibili a questa profonda domanda di opportunità...
La strada sembra essere esattamente contraria a quella percorsa negli ultimi decenni dalla politica di stampo populista, da Forza Italia, alla Lega, fino al M5S. L’ascolto degli umori degli elettori e la risposta in termini di quei provvedimenti calibrati sulle preferenze della maggioranza di quegli stessi elettori. Questa politica si è dimostrata fondamentalmente inconcludente e perfino dannosa.
Sappiamo che le preferenze degli elettori hanno condotto quelle forze al potere...
Una semplice e radicale spiegazione sta nel fatto che le preferenze degli elettori, semplicemente, non esistono. Non esistono cioè strutture date e stabili di preferenze che, per ogni singolo individuo, determinano ordinamenti su possibili esiti o scenari. Nelle nostre teste non esiste niente di simile a una classifica precostituita su quanto ci piacciono le diverse aliquote fiscali o le diverse ipotesi di regolamentazione della cittadinanza o sui vari gradi di tolleranza religiosa o, ancora, sulle proposte alternative di tutela dell’ambiente.
Tra poco l’Italia sarà di nuovo chiamata al voto, ha qualche previsione?
Si capisce bene che, se ci poniamo nella prospettiva di una politica davvero rispettosa delle persone, di come siamo realmente, e non di come ci piacerebbe che fossimo, una politica, quindi, che tenga conto di come pensiamo, di come decidiamo e di come funzionano, nei fatti, i nostri cervelli, allora l’ascolto del popolo è solo un espediente retorico di bassa lega per mascherare scelte prese altrove, non certo nell’agorà pubblica e democratica. La stessa retorica vuota della democrazia diretta o del popolo che decide.
In questi termini, fare decidere il popolo o gli iscritti alle piattaforme online, significa solo fargli ratificare scelte già prese. Uno standard piuttosto basso per ogni idea di democrazia liberale.
Dottoressa, ci sono dei rimedi?
Direi che ci sono possibili alternative, per fortuna. Alternative che per essere credibili, dovrebbero fondarsi su quattro pilastri: su un approccio contrattualista, sul concetto di responsabilità, sul principio del mutuo vantaggio e sul criterio di opportunità. Se un accordo, che ho volontariamente sottoscritto, che sia attraverso una firma in un contratto, o un voto politico, è in grado di produrre un allargamento del mio spazio delle opportunità, senza, contemporaneamente, determinare la riduzione dello spazio delle opportunità di qualcun altro, allora tale accordo può essere definito mutuamente vantaggioso. Questo principio mette al riparo da facili manipolazioni.
Ma noi cittadini cosa possiamo fare?
Dovremmo aver il coraggio, veramente, di fare decidere ai cittadini, a ogni donna e uomo, qual è la vita che ognuno ritiene degna di essere vissuta. Dovremmo avere il coraggio di rivendicare la necessità che questa possibilità ci venga data. Anzi dovremmo prendercela, tale possibilità, di valutare, attraverso questo criterio, quali siano le politiche che aumentano le opportunità di vivere la vita che ciascuno ritiene degna di vivere: fare o non fare un figlio, accettare o non accettare un lavoro in una fabbrica di armi, vaccinarmi oppure no, scegliere se studiare oppure no, amare chi si vuole amare, ridere o no, conoscere, incontrare, accogliere, perfino sbagliare.
Perché una società dove è possibile scegliere di sbagliare è sempre meglio di una società nella quale qualcuno mi obbliga a non sbagliare. Se non posso sbagliare non posso imparare. Ma di questo bisogna convincere ogni cittadino, in maniera ragionevole e con argomenti veritieri, non con bassi espedienti, gattini, bacioni o altri mezzi da imbonitore di folle. Questo è il ruolo più autentico della politica, di quella politica di cui avrebbe bisogno un paese civile e moderno.
di Giuseppe Rapuano
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