Coronavirus. Quando Luigi Mattozzi si ribellò alla chiusura della pizzeria, ieri e oggi in Bellezza con l'Archivio di Stato di Napoli

NAPOLI - Epidemia che vai, protesta che trovi. Durante i giorni del colera a Napoli, nel 1884, il capostipite dell'antica e celebre dinastia di pizzaioli napoletani, Luigi Mattozzi, protestava contro il “lockdown” imposto dallo Stato e scriveva al questore di Napoli. «Il sottoscritto si permette di esprimere rispettosamente a Vostra Eccellenza quanto appresso. Egli ha una pizzeria in Sezione Porto, Vico Banchi Nuovi N.° 16 e 17 intestata per tirar avanti la vita. Con sorpresa si vede ordinato tener chiuso detta pizzeria per causa dell’epidemia, e siccome egli non à nulla da fare con l’Ordinanza in vigore per i negozianti di vini, così prega Vostra Eccellenza disporre che il sottoscritto continuasse a vendere sole pizze come à sempre pratticato, non avendo avuto mai commercio di vini. Nelle altre sezioni sono state chiuse le sole cantine e bottiglierie quindi non è il caso di usare al sottoscritto un trattamento diverso dagli altri. Napoli 15 ottobre 1884. Firmato Luigi Mattozzi».

Non ci stava Mattozzi alla chiusura della sua pizzeria, riteneva un sopruso e un’ingiustizia per categoria merceologica e perché negli altri quartieri (sezioni) le regole erano diverse.
Luigi Mattozzi fu imprenditore di primissimo livello, sfornava pizze e figli con grande generosità. Ebbe due mogli e 17 discendenti, otto dei quali ne seguirono le orme. E i nipoti dei nipoti lo fanno ancora.
La lettera inviata al questore di Napoli è custodita all’Archivio di Stato di Napoli, diretto da Candida Carrino, fondo Questura di Napoli, Archivio generale, I serie, busta 1314 e grazie all’iniziativa messa in campo dal Mibact #iorestoacasa, con la Dg Archivi del Mibact alla scoperta degli Istituti archivistici della Campania è possibile godere, attraverso i social, di alcuni dei tesori posseduti dagli archivi.

«In questi giorni di emergenza e attenzione collettiva – ha fatto sapere nei giorni scorsi la direttrice generale degli archivi, Anna Maria Buzzi -, i cittadini italiani hanno offerto oltre a una straordinaria immagine di resilienza, un’altra grande risposta: la richiesta di contenuti di bellezza, di condivisione di conoscenze, di movimento delle idee. La Direzione generale Archivi, che ha aderito alla campagna del Mibact #iorestoacasa, si dota allora per queste settimane di un ulteriore strumento, una Newsletter settimanale che aggiorna tutti gli utenti sulle iniziative degli Archivi delle singole regioni italiane, una per ogni numero. Un modo ulteriore di aprire l’immenso patrimonio di conoscenze, memoria e curiosità ai cittadini».

Nel 1884 il colera aveva fatto la sua ricomparsa. Nonostante i tanti nuovi studi scientifici avessero fornito una maggiore consapevolezza del rapporto causa-effetto tra condizioni abitative e malattia pochi erano stati in tutta Europa i provvedimenti attuati per debellare il contagio. Nel neonato Regno d’Italia la prevenzione sanitaria era poco praticata. Importata nel 1884 da alcuni operai che lavoravano a Marsiglia e Tolone, l’epidemia arrivò in Italia. Le precarie condizioni igieniche dei quartieri più poveri ne favorirono lo sviluppo. Le provincie italiane colpite furono 44, in tre si diffuse gravemente: Cuneo contò 1.655 morti, Genova 1.438, a Napoli 7.994.
Agostino Depretis, allora presidente del Consiglio, decise lo sventramento di Napoli.

Quella decisione diede a Matilde Serao l’occasione di scrivere alcune delle pagine più belle sulla città, quell’inchiesta giornalistica per il «Capitan Fracassa» che divenne poi Il ventre di Napoli.

di Nadia Verdile

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