Di Quell'amor, di Gianni Bongioanni. Film su Amore e Vecchiaia o non piuttosto sul grande tema del Narciso?

ROMA - Film  Di Quell'amor, di Gianni Bongioanni  (105’)  2014. Da chiedersi se sia un film su Amore e Vecchiaia (Chateaubriand docet) o non piuttosto sul grande tema del Narciso e dell’incapacità di vivere. I personaggi-chiave della vicenda, Alberto, Stefano e la Ninfa Anoressica, tutti e tre hanno qualcosa in comune. In tempi e situazioni diverse hanno subìto frustrazioni tali da metterli in conflitto con sé stessi fino ad avvertire l’inconsistenza del loro Sé e, nel caso della Ninfa, del “falso Sé”, come si dice in psicoanalisi. Alberto rivela solo dopo molti anni al protagonista di aver militato nella Wehrmacht.  È un uomo che non offre quasi mai il viso alla cinepresa, inquadrato per lo più a testa bassa, lo sguardo sempre altrove.

Lui aveva provato a seguire la “meglio gioventù” di allora, era partito per fare il partigiano, aveva tentato, ma gli avevano detto che non poteva, gli mancava la vista, gli mancava tutto. Lo rifiutano, lo degradano, lo chiamano fighetta. Alberto, tempra di cristallo, pieno di risorse ma insicuro, va in pezzi. Frammentato, privato del proprio Sé, è preso in una retata tedesca. Gli uomini di Hitler, il cui parlare, dice Primo Levi, sembra il latrare dei cani, incredibilmente sono rispettosi di lui, apprezzano i suoi meriti, tra i quali, la conoscenza del tedesco. E Alberto si trova ad avere il bene dai mostri e il male dagli angeli la vita è pazza. Inversione di valori che peserà sul suo futuro.

Stefano è l’altro caro amico del protagonista: dolce, malinconico, vive aggrappato ai ricordi la complicità con i coetanei, le ragazze, l’ebbrezza degli anni verdi. Anche lui ha bisogno di continue conferme. La certezza di ‘essere’ gli viene dall’esterno, dagli altri. Se l’esterno tace, il suo interno si spegne. Da vecchio sogna ancora paradisi del sesso, donne meravigliose e più cerca prove della sua esistenza negli altri, meno ne trova. La moglie, i figli, lo guardano come un rimbambito, uno da cancellare. In questo “no tu no” Stefano affoga. Muore. 

E poi c’è la Ninfa Anoressica, stupenda creatura “tutta da disegnare” che si sforza di dare alla propria inconsistenza un modello ideale: l’intellettuale, la poetessa, la studiosa. Doti ne ha, del resto, anche Alberto ne ha, anche Stefano. Ma bastano per vivere? Lei vive recitando un’astrazione mentale forse neppure sua (di un genitore?), si lascia guidare dal maturo innamorato – il  protagonista – fino alla soglia di un successo letterario che dovrebbe darle ‘Identità’. Ma fallisce. Nella cornice di una sontuosa biblioteca, a un passo dall’agognato traguardo, si vede ignorata. Reagisce in modo penoso, persino triviale col suo pigmalione. Povera! Cinismo e cattiveria  non sono altro che disperazione, certezza di essere un nulla, una parodia delle ninfe autentiche della carta stampata o della TV.

Ha sbagliato anche lui. Nell’ansia di tenerla stretta a sé l’ha manipolata, l’ha resa brava, ma ancor meno se stessa. E la turpe reazione di lei non è che un urlo al cielo di un’anima disperata: infatti, quando sente di avere offeso il compagno, lo ama non pensando più a sé. Poi scompare, però, tradisce, dimentica. Alla ricerca di un facile successo, si offre a un nuovo amante, ignara che il pigmalione la segue. Il preservativo che pende dallo sportello della macchina che l’ha riaccompagnata (chicca da grande cinema, puro ‘specifico filmico’), sigla la discesa agli inferi di una creatura in pena, che pure era stata capace di uno slancio.

Grande archetipo la vecchia moglie del protagonista, una coltissima “fata ignorante” che pian piano arriva al dolore dell’autocoscienza. Ardito virtuosismo la scena in cui la coppia si confronta. È un dialogo a tre. Lui, il suo Sé e la moglie. Sul finire le voci vengono sovrastate da un’aria verdiana carica di dramma, di eterne attese, di rimpianti, che dice molto su un marito e una moglie che non fanno l’amore da anni, non tanto per l’impossibilità di lei di avere rapporti, quanto per l’inibizione a darsi fuori dagli schemi, in uno slancio d’amore libero. A questo punto, svegliata dalla gelosia per la Ninfa, la Fata ignorante sfoglia le rinunce che si è imposte: alla femminilità, alla seduzione, alla maternità. Quanti aborti, quanti figli mancati. Vittima di luoghi comuni, di ‘mode’, capisce che non si è lasciata vivere e, peggio, non ha lasciato vivere, e il tradimento del marito si rovescia in tradimento di sé verso se stessa. Le manovre per entrare nel file protetto che le svelerà la sbandata di lui (file rifilatoci in geniale metacinema) non sono che la metafora del suo faticoso ingresso nell’interiorità. “Fagli vedere chi sei”, dirà poi, vincendo la tentazione di fare un volo dal sesto piano.

Un bambino e la sorellina, giocando, vedono il protagonista di-steso come morto su una panchina. In terra la sua protesi dentale, forte simbolo di un animo lacerato, che perde dignità e ritegno. L’uomo ha appena saputo della morte del suo più grande amico, Stefano, e forse è finito anche lui. Ma i bambini entrano in scena con la loro forza vitale, porgono la protesi allo sventurato, che letteralmente resuscita dai morti, come Lazzaro.

E che dire di Silvia, l’eros felice, riuscito, colei che è tutta per L’ALTRO? Ecco una donna che sa misurare la distanza tra sé e il mondo e mantenere, tra i due poli, una costante tensione d’amore.
Alberto, Stefano, la moglie  e più di tutti la Ninfa col suo iter catartico arrivano, nel corso del film, a conoscere meglio se stessi. La moglie sceglierà una chiave esistenziale diversa non sappiamo con quanto successo. Altri, come il mitico Narciso, moriranno del loro amore e della pena di vederlo rifiutato, umiliato.

Bongioanni ‘sa girare’, del Cinema sa codici e codicilli (spesso li reinventa girando), ha sapienze narratologiche per maneggiare temi da paura con sensibilità da fine scrittore, e in più ha cuore fiato e attributi.  Lo dimostra con questo film ricco, denso, che scorre veloce, che più vero, sincero non potrebbe essere.

‘Vera’ (finalmente!) la Fotografia, così ‘atmosferica’, così rispettosa del reale da parlare all’inconscio. Da sola, ‘sa raccontare’, come facevano una volta le Arti Figurative, qualità ignota, ahinoi!, a fior di ‘direttori di fotografia’ der scinema, così fieri, si direbbe, di snobbare Psicologia della Percezione, ricerche della Gestalt, svolta della AVALABLE-LIGHT-con-Rifiuto-del-Flash in Still Photography,  cose basilari che  cevurebberoprobio.

Tutto questo fa della Roma notturna del Bongiofilm una sorpresa, non l’avevamo mai vista così bella (galeotta per i nostri due innamorati): la  magica autentica ruffiana Roma delle notti d’estate.

Altra forza di Bongioanni la sottolinea il MORANDINI: “...sempre una cura maniacale nel disegnare i suoi personaggi...” Sacrosanto. Ma con questo film va oltre, qui attori e attrici non recitano... ‘vivono’.

Di QUELL’AMOR di Gianni Bongioanni
cast:
Il vecchio regista            Gianni Bongioanni
La Ninfa                          Faustine Mercier
Stefano                           Roberto Bisacco
Alberto                            Gino Lavagetto
La vecchia moglie           Alba Raggiaschi
Silvia                               Emanuela Faraglia

di Pia Di Marco

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