La tristezza e la solitudine di Luigi Pirandello si leggono nelle lettere e nel suo rapporto con Marta Abba

ROMA - Viaggiando con Lorca, Alvaro, Zambrano e Pirandello ho camminato da errante tra il mare e il deserto. La geografia del Mediterraneo è una geografia delle lingue ma è anche una geografia dei contorni artistici pittorici in cui il senso dell’onirico diventa il senso dell’attrazione dei linguaggi stessi. Il Novecento ha avuto personalità importanti che sono riuscite a mettere insieme i codici della poesia con i codici della pittura, dell’arte in senso generale, dei linguaggi artistici. La pittura è sempre una forma di poesia all’interno di un percorso esistenziale artistico ancestrale così come la poesia diventa l’incipit di un immaginario in cui la recita e il linguaggio diventano un’attrazione estetica. Questa attrazione estetica ha rappresentato tutta la visione di una “Letteratura del Sublime” e di una letteratura che si è servita del raccordo tra poesia, arte e filosofia all’interno di un viaggiare che ha i codici del Mediterraneo.

Ci sono personalità nel Novecento europeo e mediterraneo che hanno basato la loro ricerca e la loro creatività attraverso questi modelli. Mi riferisco a Federico Garcia Lorca che è diventato un punto di riferimento per una poesia che è una poesia dell’estasi ma è anche una poesia in cui il canto onirico è un canto che nasce nell’abisso, ha bisogno di respirare il buio ma che, nello stesso tempo, ha la necessità di ritrovare la luce.

A mio avviso chi è riuscito maggiormente a recuperare questo senso del “chiaro del bosco” e dell’aurora è stata la straordinarietà di Maria Zambrano. Questa metafisica dell’anima, o questo “sapere dell’anima” della Zambrano, non hanno fatto altro che cogliere la suggestione che Federico Garcia Lorca ha intromesso all’interno di un quadro letterario che non interessava soltanto la Spagna, che non interessava soltanto il Mediterraneo al quale noi siamo abituati a guardare sul piano letterario e artistico, piuttosto anche quella letteratura, o quelle letterature, o quelle forme artistiche che si sono espresse come elementi sperimentali e forse anche avanguardistici. Mi riferisco all’ermetismo in senso generale che ha attraversato l’Europa e il Mediterraneo sul piano linguistico la cui derivazione è greco - orientale.

Garcia Lorca è riuscito a catturare un’esperienza che è diventata una testimonianza dell’essere e la Zambrano ha tradotto questa esperienza in un vissuto che non può essere soltanto un vissuto filosofico perché, come lei ci ha insegnato, dove giunge la filosofia, o una certa filosofia razionalista, lì muore la poesia.

Ma con Maria Zambrano la poesia diventa una “metafisica”. La metafisica non può essere letta soltanto attaverso i codici della poetica o dei linguaggi della poesia, ma deve essere letta attraverso quei codici che sono i codici in cui la filosofia si spoglia dall’essere ragione o dall’essere irrazionale e diventa metafora.

Il punto centrale tra Garcia Lorca e Maria Zambrano sta all’interno di una ontologia della metafora, perchè la metafora, in fondo, è la poesia che ha sempre accompagnato l’uomo solo, l’uomo inquieto, l’uomo che si è sentito, o che è stato Ulisse, per capire di essere Nessuno.

In questa visione dell’inquietudine, in questa visione del buio, dell’oscuro, c’è sempre l’aurora, dice Zambrano. 

Quei chiari del bosco diventano anche per Garcia Lorca e per i poemi grafici, i poemi pittorici o la pittura poetica, un vero e proprio inno a quelle albe che giungono all’improvviso e che sfiorano il mare, toccano il tramonto e si fanno vita. 

In fondo, l’uscita del labirinto, come dice il grande antropologo Mircea Eliade (recuperato in seguito ne “L’uomo nel labirinto” di Corrado Alvaro), non è altro che attraversare il labirinto e trovare sempre una Arianna che ci riporti al focolare domestico. Garcia Lorca, nonostante la sua tragica fine, nei suoi scritti ha lasciato questa capacità della “speranza” e non della “dissolvenza”.

Maria Zambrano, recuperando questa speranza, ha fatto della speranza stessa un’attesa. L’attesa in cui non c’è soltanto il destino, non c’è soltanto la provvidenza in sé come segno laico, ma anche come segno religioso; c’è in fondo, nella letteratura e nelle arti, la profezia.

Questo credo sia il cammino importante che ci lasciano Garcia Lorca e Maria Zambrano.

I “chiari nel bosco” di Maria Zambrano e “la luna che illumina la corrida” di Garcia Lorca possono essere considerate delle metafore ma, parimenti, sono l’estrema conseguenza dell’interpretazione anche affabulatoria della parola, del linguaggio, i quali costituiscono un modello interpretativo di una poesia che è una poesia dell’anima.

Garcia Lorca e Maria Zambano sono tra gli spiriti inquieti, fra le quelle testimonianze inquiete della morte dell’esilio. Una delle figure maggiormente rappresentative di questi due concetti (l’esilio come estraneità ma anche come consapevolezza di un luogo che non è il suo, come inquietudine che supera ogni forma di logica) è certamente Luigi Pirandello che possiamo annoverare all’interno di questa dimensione umana e leggendaria.

Luigi Pirandello viene letto da Maria Zambrano la quale trova in lui proprio gli estremi della confessione, una confessione intesa come genere letterario. Pirandello si presta a questa rappresentatività di modelli che sono modelli umani e letterari in un’ambiguità in cui il senso del tempo non è mai rimorso bensì “fabula della nostalgia”. Una nostalgia che a volte ha perso la favola, a volte la attraversa.

Sono aspetti, questi, necessari per comprendere una visione in cui la centralità è rappresentata dalla memoria che supera ogni forma della storia.

Maria Zambrano parlava spesso di “sapere dell’anima” dando un senso al concetto di “metafisica dell’anima”. Nei sei personaggi di Pirandello intravede il legame tra metafora e metafisica. Nel testo di Pirandello, dal titolo “Questa sera si recita a soggetto”, sono presenti gli estremi di una poetica dell’individualità ma al contempo anche gli estremi della capacità di essere personaggio e uomo allo stesso tempo, di non fare volutamente una distinzione tra uomo e personaggio sulla scena e nella vita. 

Ma è nelle lettere tra Pirandello e Marta Abba che emerge con evidenza questa visione che diventa illuminazione del destino e del senso del destino. La tristezza e la solitudine di Pirandello si leggono proprio in queste lettere e nel suo rapporto con Marta Abba.

Il 1 giugno del 1930 Pirandello scriveva a Marta Abba: 
“Ho perduto anche l’orgoglio nella mia solitudine, ho perduto anche l’amore della mia sconsolata tristezza”. 

I due aspetti, solitudine e tristezza, diventano la favola non più bella ma che è stata bella e che qui si tramuta nella consapevolezza di questo dire.

Corrado Alvaro è stato un autore che ha maggiormente approfondito Pirandello, molto amico di Cristina Campo, la quale ha intrattenuto una forte amicizia con Maria Zambrano. Egli ha affermato: “I drammi pirandelliani sono i drammi dell’angoscia della borghesia, della stessa civiltà col suo mondo di convenienze e dissoluzione e con il ripullulare della natura e dell’istinto, cioè di una morale natuale là dove quella sociale è fallita». Credo che questo inciso abbia a che fare anche con il senso, a questo punto, non metafisico di Garcia Lorca. 

Sono convinto che ci sono destini nella vita che permettono di incontrare persone che si ameranno, o che si sono amate in un altro tempo, in un’altra vita, in un altro contesto, e che ritornano come un modello profetico ad occupare positivamente il cammino quotidiano.

Se Maria Zambrano vive questa metafisica dell’esilio per dire che vive la fortezza dell’esilio dunque il viaggio, Corrado Alvaro ha vissuto un viaggio accanto e per questo motivo parla di Pirandello in un percorso che è un percorso in cui si perde la cronaca ma in cui resta il senso della moralità.

Quando Marta Abba recita i testi di Pirandello, da “Diana e la Tuda”, a partire dal 1926, da “L’amica delle mogli” del 1927 a “Come tu mi vuoi” del 1930 fino al meraviglioso “Trovarsi” del 1932, si vive, in questo teatralizzare la vita e il dolore, un senso che è il senso del dramma, che è il senso della comunione, quella comunione in cui noi leggiamo il vissuto de “L’uomo, la bestia e la virtù” di Pirandello fino a “Quando si è qualcuno” del 1933. 

Sono elementi in cui si recita a soggetto ma questo soggetto ci dice ciò che Pirandello ci ha detto «Non ci si trova alla fine che soli» e ci si trova soli proprio nel momento in cui «I nostri fantasmi più e più veri di ogni cosa viva e vera ci accompagnano lungo l’ultimo viaggio» ovvero siamo a Trovarsi.
Questo dire, questo stare non alla finestra, bensì lungo le strade della vita, ci permette in fondo di capire che cos’è scrivere e che cos’è vivere e scrivere perché, come ha sottolineato Pirandello nella lettera del 1 febbraio del 1932 a Marta Abba: 

“La vita, o si vive o si scrive. La vita che si scrive è storia; la vita che si vive è cronaca. Chi vuol viverla, non scriva; chi vuol scriverla e non viva, o costretto anche a viverla, ne sopporti le inevitabili amarezze”.

Ecco dov’è il filo rosso o il filo bianco che lega queste anime inquiete, queste anime che fanno del senso del tempo una metafora della memoria e quella “favola che fu bella” diventa “favola nella memoria”. Di conseguenza pensare a Maria Zambrano, a Garcia Lorca, a Pirandello e al Corrado Alvaro della favola della vita che è più della vita stessa, significa cercare di penetrare quel senso del tempo che non abbiamo più e restare a guardare quelle vele bianche come ci rappresenta Pirandello ne “Il caos” del 1894. 

Quelle vele bianche che sfidano il vento e sulle onde d’altura vanno sempre oltre mentre la luna ha il suo tocco magico, ha la sua dimensione onirica, ha la sua assenza quando è necessario. La sua assenza per confessarsi nel buio, la sua presenza dopo essersi confessati e guardare l’orizzonte.

Tutto questo è nel legame tra letteratura e favola da un C’era una volta e che ora non c’è più, in un Pirandello che diventa magico proprio osservando la luna, in un Garcia Lorca che fa ondeggiare la luna nei cieli andalusi, in un Corrado Alvaro che cerca la luna tramontata e in una Maria Zambrano che si confronta con la luna dentro l’esilio.

Tutto questo, in fondo, non è altro che la metafisica della vita stessa.

di Pierfranco Bruni

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