Coronavirus. Ilaria Di Leva: palpita l’irrefrenabile bisogno della parola, e la sensuale infrazione del divieto. Covid-19

ROMA - La parola nell’epoca del Coronavirus. Parole: irradiate al crepuscolo della polisemia o compresse nel tenore asettico della letterarietà, aperte al vaticino del mito e all’assertività geometrica della ragione: rivelazione o svelamento?

Verità o retorica?

“In principio era il verbo e il verbo era Dio” e mentre l’Occidente immobilizzava il divenire nel logos, la poesia lo incendiava nell’oltranza dei sensi, dallo spasmo alla catarsi, dalla stasi al tormento, dall’urlo al silenzio. Poi, inesorabilmente, la consanguineità epica tra parola e vita si è sbiadita nello scollamento machiavellico tra etica e perseguimento del fine; il tornio illuministico ha scremato la parola come un numero primo, rinnegando il misticismo del sema e l’ulteriorità ermeneutica. E più non c’è tempo: dalla primordialità adamitica al frastuono odierno, la globalizzazione ha portato con sé la frantumazione riduzionistica della sintassi e la desuetudine di molte parole, tradita e barattate con forestierismi modaioli.

E così, nell’era frenetica dell’homo videns, gli acronimi le hanno surrogate, mentre la proliferazione degli emoticons ha creato l’illusione di un rinnovato olismo comunicativo, dove l’intersezione tra immagine e parola mima scompostamente la capacità di rievocare mondi e sensazioni. Intanto, si piomba impunemente nell’anaffettività dell’iperdigitalizzazione.

Oggi, però, qualcosa è cambiato: tra le strade deserte e i sipari dell’antisocialità si aggira feroce il fantasma del Coronavirus e d’un tratto siamo stati inghiottiti nelle nostre ansie ancestrali, nella ciclica riproposizione della caccia alle streghe, dove il “diverso” ha la labe d’untore.

Nell’esorcizzazione della morte, all’iniziale banalizzazione del contingente ha fatto seguito il rituale delle regole, l’istinto di sopravvivenza, la cura claustrale e, finalmente, nel rantolo ermetico dell’ultima parola socializzata la nostalgia dell’umanità. Senza rossore, si intonano da balconi gremiti inni alla vita: il tepore primaverile dipinge speranze tra fragilità pensose. Non conosce gerarchizzazioni il dolore rappreso nel volto di chi teme l’ignoto; eppure, senza stridore palpita l’irrefrenabile bisogno della parola, di un suono investito di sensi e controsensi in cui perdersi e ritrovarsi, come se fosse la prima volta.

E come d’incanto, da labbra serrate ermeticamente la sensuale infrazione del divieto: la pronuncia della parola ritrovata, denudata dai simulacri della verbosità. Ed è subito vita.

di Ilaria Di Leva

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