Pia Di Marco: Roma al tempo del Coronavirus, con l'asino che vola e il Tempietto della Pace

ROMA - Roma al tempo del Coronavirus. Dal vicolo del Curato a via del Teatro Pace. Giro per il vicolo del Curato, poi per piazza San Salvatore in Lauro, costeggio la chiesa;  in via di Tor di Nona mi fermo davanti a un muro di graffiti: sembrano caratteri arabi, impossibile capire; in alto, la scritta “MACRO” è ripetuta molte volte. Poco più avanti, c’è la rampa di ferro che mette in comunicazione la via col Lungotevere; sotto la rampa, una coperta aggrovigliata, qualche straccio, un’illustrazione sul muro: un ragazzo con gli occhi chiusi e, dietro di lui, un diavolo dallo sguardo struggente.

Di fronte al MACRO, un altro disegno firmato “Primo de BANCSY”, è Copernico, non lo immaginavo come un ragazzo; la scritta dice: “Copernico si sbagliava... il mondo gira attorno ai soldi”. Sopra la figura snella dell’astronomo, si apre una lunetta, i vetri sono rotti da tempo, qualcuno ha messo un telo nero che si gonfia leggermente nell’aria mite della prima giornata di primavera.

Più in là, all’angolo col vicolo dei Marchigiani, c’è un cartello segnaletico, freccia a sinistra per piazza Navona - anche per il murale “l’asino che vola”.

Mi chiedo se non sia un burla, eppure l’insieme è omogeneo e così i colori e la grafica e le frecce.

Vado a vedere l’asino che vola. E’ dipinto tra piccole finestre di un quarto piano, alato, recalcitrante, ostinato come quel ciuco che si chiamava Platero, il protagonista di un romanzo per ragazzi, lettura imposta da una maestra odiosa.

“Perché quel nome?”, chiedeva la maestra stuzzicandoci come piccoli leoni. “Per via del pelo  argenteo” rispondeva la ragazzina brava e io morivo d’invidia e gelosia. Non è tutto perduto se Platero torna improvvisamente a guizzare col suo pelo d’argento dal sonno della memoria proprio davanti a questo sgraziato somaro - un autoritratto, visto che occorrono le ali per dipingere tra le finestre di un quarto piano.

Mi fermo davanti a  una Land Rover che penetra il vicolo dei Marchigiani con i suoi metalli, gomme, cromature: “Non sporcate qui”, dicono  piccole lapidi poste sull’intonaco del rione che solleva il ventre respirando, come una donna. Torno a San Salvatore in Lauro, salgo per via di Panìco, arrivo a piazza del Fico: il grande fico è sempre là. Conoscevo una che aveva le finestre vicino alla radice della prodigiosa pianta, si faceva d’eroina ed era un’eroina: una volta avevamo visto insieme un film, s’intitolava “La doppia vita di Veronica”, c’era da scegliere fra  Veronica che non smette di danzare col cuore malato e Veronica che non danza più: lei aveva scelto la prima.

Arrivo a piazza Pasquino, la chiesa di Gesù Bambino della nazione congolese è chiusa: da lì eravamo partiti in un variopinto, disordinato corteo una domenica mattina di tre anni fa, per attraversare il Tevere fino a San Pietro: quella brava gente, che a Messa aveva cantato frenando a stento la voglia di ballare, chiamava Francesco perché la liberasse dal tiranno assassino del loro Paese.

Sulla statua di Pasquino, dove per secoli quelli che non possono niente hanno appeso satire anonime contro quelli che possono tutto, è incollato un foglio con una satira contro gli effetti polizieschi del Coronavirus: “la dittatura ha trovato la sua corona” recita malizioso l’ultimo verso.

Nel vicolo del Fico, qualcuno ha impresso la sua arte dove l’intonaco è più rosa: “Fu allora che li vidi” è scritto, e gli occhi atterriti di una ragazza da cartoon mi fissano.

Piazza Navona è piena di carabinieri: finalmente qualcuno che t’incolpa anche solo per una passeggiata. Santa Maria dell’Anima, l’hotel Raphaël dove lanciarono le monetine a Craxi, un’altra Italia. Giro per il Tempietto della Pace (Chiostro del Bramante): su una parete di multistrato che copre un cantiere, riconosco un disegno di Mauro Pallotta. MAUPAL - come sigla ogni sua opera - l’ho incontrato per la città attraverso i suoi murales  sorprendenti e pieni di pensieri, provocatori, col gusto del paradosso. La firma è inconfondibile, lo stile, anche. Il David di Michelangelo è seduto su una carrozzina dalle grandi ruote dipinte col tricolore; vicino ai pedali, il vocabolario di Greco Rocci: me lo ricordo, ponderoso e con pagine più sottili di un velo, Greco-Italiano, dal passato a oggi, un biglietto di sola andata, indietro non si torna. Il David guarda qualcosa alla sua sinistra, il capo è eretto e armonioso, la mano sfiora la ruota, l’altra regge un cartello dov’è scritto “Patrimonio artistico”, c’è anche il marchio di un noto centro di studi universitari.

Questo David disabile, fieramente seduto su una carrozzina, forse il simbolo di un patrimonio artistico non tutelato eppure vivo e combattivo come il biblico ragazzo lanciatore di fionda,  è la personificazione di tutti i ragazzi disabili che con un insegnante seguo a distanza dopo che la scuola ha chiuso. E’ Claudio, tetraplegico, diciotto anni, terza liceo Classico: giorni fa, parlando al telefono, gli abbiamo chiesto di registrare in WhatsApp quel che vede dalla finestra di casa sua: con l’aiuto di qualcuno  ha inviato messaggi vocali inventando un’emittente e immaginandosi cronista nelle strade deserte: “Siamo leoni in gabbia” dice in uno di questi messaggi, “perfino io...  - pausa -  ma dobbiamo resistere”.

Il David di Maupal è Gabriele, autistico, 16 anni, prima Linguistico: estrae dal cappello a cilindro del suo mistero brevi frasi in francese, in spagnolo, racconta qualcosa di sé, la lingua è  un mantello per non uscire del tutto allo scoperto.

Sotto  l’Arco della Pace, affisso al muro, c’è un altro disegno, firmato “QWERI”: In uno spazio nero, punteggiato di deboli stelle, un piccolo uomo dal profilo alla Modigliani, pelle rossa e minuscole ali bianche, tenta di invertire la rotta di una bomba su cui è legato un fiocco regalo. Per oggi basta. Torno a casa.

di Pia Di Marco

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